Salvaguardare l’agricoltura di qualità

Giampiero Castellotti
07/02/2024
Tempo di lettura: 13 minuti
Orto

La posta in gioco è notevole. L’assalto delle multinazionali al settore agricolo, quello primario perché essenziale per le esigenze di sostentamento e di benessere di noi consumatori, non conosce freni. Quello che è avvenuto in molte aree del Globo, si pensi all’Africa dove milioni di famiglie di agricoltori sono state cinicamente estromesse dalla coltivazione della propria terra che amministravano da generazioni, rischia di ripetersi anche in Europa. Basta, del resto, farsi un giro in un supermercato per rendersi conto che la maggior parte dei prodotti ha il marchio – o il sottomarchio – di una multinazionale e gran parte della merce sugli scaffali ha il logo dello stesso supermercato in un giro di appalti e subappalti che finisce spesso per declassare la qualità finale di un prodotto.

Un aspetto importante – forse il principale – delle proteste di questi giorni è la spontaneità. È vero che la scintilla è stata accesa in Germania per una problematica strettamente locale – i tagli ai sussidi economici per controbilanciare principalmente le spese per il conflitto in Ucraina (armi al posto del cibo, a pensarci bene, roba da medioevo) – ma è altrettanto lampante che il pretesto è stato colto al volo perché i problemi sono enormi.

Al di là delle singole criticità, su cui torneremo dopo, c’è un quadro generale che preoccupa.

La grande industria del cibo, quella che impone l’omologazione dei prodotti e delle scelte, per ottimizzare i propri profitti sta ulteriormente spingendo sulle economie di scala. Spazio, quindi, a produzioni più a buon mercato e senza rischi: in questa logica arriveranno gli insetti nel piatto, le carni fatte in laboratorio, l’ulteriore saga degli organismi geneticamente modificati per merci non deperibili e durevoli, ma dai valori nutrizionali alterati. La giustificazione è quella di ridurre gli impatti ambientali o di sfamare il Pianeta, ma in realtà nelle grandi aziende non ci sono missionari ma soltanto manager del business.

Già oggi gran parte di ciò che mangiamo non esiste in natura. Ormai è tutto un “adattamento”. La genetica dà una mano, ma non ha colpe ovviamente, è uno straordinario strumento che può avere esiti positivi o negativi a seconda dell’uso. Già alla fine dell’Ottocento l’agronomo marchigiano Nazareno Strampelli ha prodotto oltre 800 diversi incroci di grano e 65 varietà, compreso quel “senatore Cappelli” oggi tanto in auge. Lo scienziato marchigiano non solo non volle sottoporre a brevetto le sementi frutto delle sue ibridazioni, ma riuscì ad ottenere una legge innovativa, lo “scambio delle sementi”, che assicurava ai contadini lo scambio delle sementi di vecchie varietà con quelle sperimentali a titolo gratuito.

Se allora, però, la ricerca non era così ossessionatamente legata alla commercializzazione dei risultati, oggi le nuove tecniche genomiche che modificano con precisione il dna delle piante rischiano di annullare quella biodiversità accumulata in millenni di saperi contadini.

Inoltre, proprio in queste ore, è atteso un voto del Parlamento europeo che potrebbe cancellare etichettatura, tracciabilità e valutazione del rischio per i nuovi organismi geneticamente controllati. Le regole vigenti dal 2001 per la commercializzazione di organismi geneticamente modificati e il divieto nazionale sulla coltivazione rischiano, quindi, di essere cancellate con un colpo di spugna dal voto dell’europarlamento. Lo spazio di produzione dei piccoli produttori “resistenti” è sempre più limitato e il diritto di scelta ai consumatori è di fatto maggiormente precluso perché le alternative sui banchi dei punti vendita sono sempre più fittizie. A rischio anche il principio di precauzione.

È questo uno dei passaggi epocali, il più rischioso, per la nostra agricoltura di prossimità. I colossi dell’agroindustria, a cominciare dalle industrie sementiere transnazionali, mirano a “seminare” brevetti, spesso con la complicità delle principali organizzazioni di categoria, quelle che hanno di fatto amministrato per decenni – e contribuito a ridurre allo stato attuale – l’agricoltura italiana. Gli organismi geneticamente modificati, le biotecnologie, le nuove tecniche genomiche (furbescamente ribattezzate “Tea”, Tecniche di evoluzione assistita), con l’esito della biocontaminazione (pollini geneticamente modificati che invadono altri campi), sono false opzioni spacciate per il toccasana, indicate come il balsamo per garantire reddito agli agricoltori. Oltre a non apportare benefici economici ai piccoli proprietari di terreni, bensì a legarli a doppie mani alle logiche di mercato imposte dalle multinazionali, presentano anche incertezze sugli effetti su piante e uomini, conseguenze ancora largamente sconosciute. È ormai accertato come il rilevante aumento di numero delle forme tumorali sia collegabile principalmente alla cattiva alimentazione.

A difendere a spada tratta l’utilizzo della biotecnologia sui semi, come ricordano gli appelli contro questo preannunciato disastro, troviamo proprio quelle grandi organizzazioni agricole che hanno trascinato l’agricoltura italiana nell’attuale stato di sofferenza, ma anche sedicenti scienziati al soldo delle lobby e ovviamente le industrie sementiere. La coalizione di organizzazioni contrarie, dal Wwf a Slow Food, chiedono regole precise. “Le mutazioni genetiche fuori bersaglio sono all’ordine del giorno con queste biotecnologie, propagandate invece come precise e mirate – scrive la coalizione in una nota. “I loro effetti sulle piante e sugli organismi viventi sono ancora largamente sconosciuti, ma vengono minimizzati da una ricerca che dipende ormai dalla vendita delle sue ‘innovazioni’ ai signori dei semi – accusano le organizzazioni. Del resto, in una spirale senza fine, la ricerca è per lo più finanziata – e indirizzata – da chi ha i soldi, quindi dai giganti dell’industria sementiera, strettamente connessi all’industria chimica dei pesticidi.

Queste multinazionali, qualche decennio fa, grazie agli Ogm promettevano cibo sufficiente a sfamare il mondo e a debellare la fame. Sappiamo com’è andata. La produzione alimentare è più vulnerabile, concentrata in poche mani, la speculazione sui prezzi è all’ordine del giorno e la categorie degli agricoltori è tuttora massacrata da leggi insensate e da un mercato per loro asfittico.

L’agricoltura è la nostra vita

Tutto ciò s’inserisce in un quadro incontestabile: l’agricoltura è l’unico settore produttivo da cui dipende la nostra esistenza. Insieme all’allevamento e alla pesca, è alla base della nostra dieta quotidiana e della nostra “sopravvivenza” sulla Terra. Non a caso è definito “comparto primario” – come tale “principale” e “fondamentale” – e comprende le prime attività nella storia dell’uomo sul nostro pianeta. L’agricoltura dovrebbe essere lo stretto rapporto tra uomo e natura, il riconoscimento alla terra che ci nutre; chi la cura merita quindi il massimo rispetto. Ha scritto Gandhi: “Dimenticare come zappare la terra significa dimenticare se stessi”.

Il rapporto principale l’agricoltura lo ha quindi con l’ambiente. Più le coltivazioni sono naturali e più è garantito il rispetto per l’habitat. Nei millenni, questa straordinaria relazione è stata sempre connessa e armonica: l’agricoltura ha foggiato il paesaggio, ne ha prevenuto il dissesto ed è stata decisiva nella sua affermazione in termini di valore. Si pensi, ad esempio, al ruolo dei vigneti nel disegnare la “scenografia” delle colline toscane, invidiateci in tutto il mondo.

Per secoli, pur con l’evoluzione dei tempi, l’agricoltura ha mantenuto un ruolo di concordanza ed equilibrio con l’habitat, di resilienza naturale mediante l’adozione dei modelli produttivi consoni alla salvaguardia e alla riproducibilità delle pratiche stagionali. Ha rispettato e spesso protetto la biodiversità. Ha attuato un uso parsimonioso delle risorse naturali, contenendo il consumo e l’inquinamento delle fonti idriche. Ha contrastato la distruzione degli ecosistemi e il deterioramento dei terreni attraverso tecniche sostenibili.

L’irruzione dell’economia di mercato, sempre più su scala globalizzata, e l’evoluzione tecnologica hanno alterato pratiche agricole consolidatesi nel tempo. Negli ultimi decenni queste trasformazioni hanno acquisito una maggiore rapidità e tanti processi sono sfuggiti di mano. Ben venga l’innovazione, ma andrebbe gestita, guidata, orientata verso l’evoluzione e non l’involuzione.

L’esigenza di una decisa crescita della produttività, anche a causa dell’aumento dell’entità della popolazione mondiale, ha invece accentuato l’impatto ambientale, quantitativo ed economico del settore primario. L’agricoltura intensiva, ad esempio, è diventata la forma dominante di coltivazione. Alcuni prodotti locali, poco redditizi, sono stati abbandonati rischiando l’estinzione. La deforestazione, l’utilizzo intensivo di pesticidi e fertilizzanti, l’impoverimento dei terreni, la crescente desertificazione, l’uso smodato delle risorse idriche e l’inquinamento delle falde, la perdita di biodiversità dovuta alla prevalente coltivazione di monocolture su larga scala, la probabile corresponsabilità per le piogge acide e i cambiamenti climatici sono alcune delle conseguenze ambientali dei nostri tempi con cui dobbiamo fare i conti. La cementificazione dei tratturi è l’attentato e il suggello alla scomparsa di una civiltà millenaria.

Sul piano economico, lo strapotere di multinazionali non ancorate a specifici territori, quindi sfuggenti nel sottostare alle regole, ha forzatamente estromesso milioni di piccoli coltivatori dal mercato, rendendo meno redditizia l’attività degli operatori residuali, i “resistenti”, e determinando anche la massificazione, l’omogenizzazione e il decadimento qualitativo delle produzioni.

L’agricoltura industriale, moltiplicando lo sfruttamento e la produttività delle estensioni agricole, ha stravolto durature pratiche lavorative e commerciali grazie alla possibilità di immettere sui mercati grandi quantità di prodotti ortofrutticoli a prezzi generalmente competitivi, ma sottoposti sempre più spesso al potere della speculazione.

Il ruolo dell’Italia

E il nostro Paese, paradiso delle produzioni agricole d’eccellenza, come ha vissuto e sta vivendo queste trasformazioni?

L’Italia, pur subendo alcune di queste distorsioni – ad esempio con l’agricoltura intensiva nella Pianura padana o con un alto consumo di pesticidi – mantiene un livello complessivo di pregevolezza delle proprie produzioni agroalimentari grazie in particolare alle reti, ai consorzi e alle tipicità di nicchia. Inoltre eccelle nelle forme di agricoltura tradizionale e biologica. Non è un caso se alcuni dei nostri prodotti siano i più copiati al mondo.

Un patrimonio che va difeso strenuamente e costantemente valorizzato affinché non si perda la qualità di ciò che finisce nel piatto e ad ogni coltivatore sia assicurato il giusto guadagno.

Occorre, insomma, difendere strenuamente le produzioni locali di qualità, quelle che rispondono maggiormente ai criteri naturali di stagionalità e che garantiscono la sicurezza alimentare e la soddisfazione per il consumatore finale.

La custodia dell’agricoltura virtuosa, quella che favorisce la biodiversità e incoraggia un impatto neutro sull’ambiente, è l’unica strada percorribile per conciliare la redditività del coltivatore, sostenuto dalle istituzioni per il suo apporto altamente meritorio alle esigenze della popolazione, con la salvaguardia ambientale.

Le proteste di questi giorni degli agricoltori da Nord a Sud nelle strade italiane, hanno alla base molte questioni comuni tra loro, talvolta ancestrali.

A cominciare dall’atavico tema della “giusta remunerazione”, cioè dal fatto che un coltivatore deve essere messo in condizione di guadagnare e non di doversi indebitare per poter mandare avanti l’azienda che è stata del padre, del nonno e spesso di precedenti antenati. Tutti i costi di produzione sono aumentati all’inverosimile e i coltivatori non ce la fanno più.

Una realtà aggravata dall’enorme differenza tra quanto viene pagato un prodotto al contadino e a quale prezzo finisce nella grande distribuzione: il latte, per fare un esempio, viene acquistato ad una cinquantina di centesimi dal produttore e finisce nei frigoriferi dei negozi mediamente prezzato tra un euro e mezzo e due euro.

Un nodo emerso già più volte in passato, ma mai risolto a causa dell’enorme potere delle multinazionali del settore, abili spesso anche nel lobbismo verso la politica italiana e soprattutto comunitaria.

Non a caso le proteste debbono avere come primo scenario i Palazzi di Bruxelles, cioè quell’Europa dei burocrati che sta gestendo da anni, non senza colpe, il comparto primario.

Emblematica è la questione della transizione ecologica, dell’ambientalismo, del “green deal” europeo. Le norme che, in nome della sostenibilità, impongono restrizioni alle aziende comunitarie costituiscono un fardello che le mette in ginocchio rispetto alla concorrenza di Paesi dove quasi non esistono controlli: a noi si chiede di ridurre l’uso dei fitofarmaci (della metà entro il 2030) o di tagliare drasticamente le emissioni nocive nel settore zootecnico, passaggi per i quali sono necessari rilevanti investimenti, mentre dall’estero entrano tranquillamente i prodotti a prezzi stracciati, pieni di pesticidi, quasi sempre gestiti dalle solite multinazionali. Gli stessi obblighi andrebbero imposti per l’origine dei prodotti extracomunitari, con la parità delle condizioni di lavoro e la lotta alla concorrenza sleale. L’agricoltore, con la sua esperienza spesso radicata nei tanti passaggi di testimone tra le generazioni, vuole essere libero di svolgere il suo lavoro senza vincoli, orpelli, zavorre burocratiche che rendono spesso questa attività un vero e proprio supplizio con guadagni risibili.

La transizione ecologica non ha senso senza il coinvolgimento diretto dei coltivatori, in particolare di quelli svincolati dalle grandi logiche dei mercati in mano alle multinazionali, piccoli contadini in grado però di compiere grandi gesti come quello di controllare il dissesto idrogeologico attraverso la cura di un terreno, o di tenere pulito un fosso, o ancora di presidiare un terrazzamento. “La felce da bruciare cresce nei campi non coltivati” ha scritto Orazio.

La “svolta verde” non può diventare, in mano ai burocrati comunitari, una costante “follia green”, come il sostegno alla produzione di alimenti creati in laboratorio (la famosa e famigerata “carne sintetica”) in alternativa alla zootecnia o l’imposizione dei “terreni a riposo”: davvero inconcepibile mantenere almeno il 4 per cento di alcune aree non produttive, ovvero non occupate da colture per aiutare a ripristinare natura e biodiversità, come vorrebbe l’Unione europea. Insomma, la Pac, la Politica agricola comune, per quanto metta a disposizione al settore quasi 300 miliardi nel periodo del bilancio Ue 2021-2027 (circa un terzo destinato all’agricoltura), tuttavia continua a perpetuare ingiustizie e illogicità. Ad esempio, questa montagna di soldi finisce per gran parte ai grandi gruppi industriali del settore alimentare, spesso tra i fautori dei disastri ambientali, mentre i contadini tradizionali, con le loro piccole aziende, continuano ad essere estromessi dal “grosso della torta”.

Occorre capire, inoltre, che far morire le piccole imprese agricole equivale ad accentuare lo spopolamento delle aree interne, amplificando i problemi ambientali con il dissesto territoriale. In una situazione in cui l’Italia sta andando incontro ad un drammatico e complessivo inverno demografico, l’esodo dalle aree interne equivale alla desertificazione di numerosi territori.

Insomma, in cima alla lista delle richieste ci sono le deroghe alla Pac, ma anche la costruzione di una Pac futura che tenga in gran conto i rischi di un’agricoltura poco sostenuta.

Analogamente, le proteste di queste ore riguardano l’alto costo del gasolio, tra 1,10 e 1,30 euro al litro, con la prospettiva che le attuali agevolazioni cesseranno tra due anni in tutta l’Unione europea. L’agricoltura ha bisogno di più fondi e non di tagli.

Basilare la richiesta di sgravi fiscali al settore. Ad iniziare da quelli per l’acquisto del gasolio agricolo, ma anche la detassazione dell’Irpef sui terreni. Gli agricoltori, inoltre, chiedono l’eliminazione totale dell’Imu sui terreni agricoli e l’abbassamento dei contributi Inps.

Se uno Stato, costruito sulle relazioni umane e sulla socialità, ha bisogno di pagare direttamente i professori per assicurare la trasmissione dei saperi, le forze dell’ordine per garantire la sicurezza o i magistrati per tutelare la giustizia e tante altre professionalità per far funzionare al meglio i meccanismi istituzionali, al di là che ci si riesca o meno, i settori produttivi, a cominciare dagli imprenditori agricoli, debbono essere analogamente supportati perché – per quanto operanti in una sfera privata – svolgono una funzione basilare di servizio pubblico. E se i punti vendita si riempiono sempre più di prodotti dalla qualità e dalla provenienza discutibili, specie quelli che arrivano dall’estero, il ruolo del piccolo coltivatore italiano acquisisce valore aggiunto nell’offrire per lo più alimenti territoriali, quindi tipici e genuini, spesso a chilometro zero. Ecco perché saremo sempre al suo fianco.

Giampiero Castellotti