Moneyfarm: nubi sul futuro della previdenza italiana

Giampiero Castellotti
11/02/2024
Tempo di lettura: 3 minuti
Pensioni

Una recente indagine effettuata da Moneyfarm, società di consulenza finanziaria indipendente con approccio digitale, dipinge il quadro di una vera e propria emergenza pensioni per il futuro italiano.

Nel 2024 nel nostro Paese il rapporto spesa pensionistica/PIL – uno degli indici con cui si misura la sostenibilità del welfare pubblico – salirà al 16,2% dal 15,8% del 2023: un aumento dovuto anche alla rivalutazione delle pensioni per effetto dell’inflazione e che inciderà in modo significativo sul futuro del sistema pensionistico e dei cittadini.

Si ricorda che, nel 2010, si prevedeva un rapporto spesa/PIL del 15% per il 2020 e attorno al 16% per il 2045: un solo punto percentuale equivale a circa 19 miliardi di euro all’anno di spesa pensionistica.

La situazione è così delicata che la Riforma 2024, per la prima volta dalla Riforma Monti-Fornero del 2011, ha modificato le regole non solo per chi è vicino all’età pensionabile (Quota 103 e Opzione Donna), ma anche per coloro che hanno iniziato a lavorare a partire dal 1996 e che rientrano nel sistema di calcolo contributivo. Per questi lavoratori “giovani” si allontana la possibilità di pensione anticipata tre anni prima del requisito di vecchiaia (oggi pari a 67 anni): il valore della pensione dovrà infatti essere pari ad almeno 1.320 euro netti al mese (tre volte l’assegno sociale, prima era 2,8); tale soglia scende leggermente per le lavoratrici con un figlio (2,8 volte) e con due o più figli (2,6 volte).

Inoltre, negli anni dell’anticipo (fino al compimento dei 67 anni), la pensione non potrà essere più elevata di circa 2.230 euro netti al mese (38.910 euro lordi all’anno, pari a cinque volte il trattamento minimo).

Buone notizie solo per chi avrà pensioni basse: si restringe infatti la platea di chi rischia di andare in pensione a 71 anni e oltre con la pensione di vecchiaia contributiva (prima la soglia minima di pensione era di 672 euro netti al mese, mentre oggi è scesa a 534).

Secondo l’Ocse, chi entra oggi nel mondo del lavoro passerà circa un terzo della propria vita futura in pensione ma, a partire dal 2030 circa, la situazione per i conti pubblici corre il rischio di complicarsi ulteriormente con l’ingresso in pensione di molti “boomers”.

La previdenza integrativa è ancora poco diffusa: ad oggi solo 26 italiani su 100 stanno attivamente mettendo da parte dei risparmi in strumenti di previdenza complementare e nel periodo 2007-2022 solo il 22% del TFR è stato destinato a questo tipo di strumenti. Tra l’altro, a fine 2022, si registrano quasi 2,5 milioni di “silenti”, ossia persone che possiedono un fondo pensione ma che hanno smesso di versare, dei quali circa la metà da oltre cinque anni.

Qual è l’identikit dell’aderente medio alla previdenza integrativa? L’aderente medio è maschio (al 62%), ha 47 anni, versa 177 euro al mese, finora ha messo da parte 22.180 euro e al termine preferisce riscattare l’intero capitale. Se differenziamo per genere e per età, gli uomini mensilmente versano di più (195 euro) delle donne (158 euro). Il contributo medio sale all’aumentare dell’età e quindi delle disponibilità economiche. È solo il 7,8% circa la quota parte degli aderenti che riesce a versare il massimo della deducibilità concesso dal trattamento fiscale agevolato (5.164 euro/annui). A livello nazionale, a fine 2019, sono stati accantonati 206 miliardi di euro in previdenza integrativa (22.180 euro medi per iscritto); per quasi una posizione su quattro, tuttavia, il capitale accumulato non supera i mille euro complessivi. (Abstract Moneyfarm)

Giampiero Castellotti