La scomparsa di Gerardo Bianco, alfiere del ruolo del Parlamento

Domenico Mamone
04/12/2022
Tempo di lettura: 3 minuti
Image 39
Gerardo Bianco con Sergio Mattarella nel 2017 (Francesco Ammendola – Ufficio Stampa e Comunicazione Presidenza della Repubblica – Quirinale.it)

È sempre più raro, oggigiorno, ascoltare qualche dotta citazione da parte dell’esponente politico di turno. Evitando lo scontato ricorso al calo qualitativo della classe della cosiddetta Seconda Repubblica nel suo complesso, possiamo perlomeno appellarci all’irrompere della nuove tecnologie e del conseguente linguaggio più povero, modesto e immediato. Nei confronti televisivi o sui social, dove tutto è veloce e, ahinoi, anche superficiale, troneggia lo slogan consumato, talvolta aggressivo, talora condito da un’ironia di terz’ordine. Molte parole e pochi ragionamenti, tanto per sintetizzare.

Questa premessa è d’obbligo accingendoci a ricordare Gerardo Bianco, deputato per ben quarant’anni e nove legislature (e per cinque anni europarlamentare), storico esponente politico della Democrazia cristiana, scomparso nei giorni scorsi a novantuno anni.

In queste circostanze si suole dire “uomo di altri tempi”. E non solo anagraficamente. Perché sentendolo parlare, anche di recente (è stato presidente degli ex parlamentari), impressionava proprio per il suo eloquio e la sua dialettica ricca di citazioni latine. C’è capitato, qualche anno fa, di assistere ad una sua relazione nell’ambito di una presentazione libraria ed è stata una “sensazionale riscoperta” di un politico emblematico di quella Prima Repubblica che pur tra alti e bassi ha assicurato benessere alla maggior parte degli italiani.

In diverse interviste, specie degli ultimi tempi come uno degli ultimi esponenti di quelle stagioni, ha ricordato Moro “grande padre della Dc”, Fanfani (“appariva così antipatico, invece era di una simpatia assoluta”), Forlani “un grande gentiluomo”, Cossiga “persona coltissima, preparatissima e un grande amore per la classicità, sempre molto apprezzato”.

Bianco è stato soprattutto un grande intellettuale prestato alla politica, benché abbia sempre rifiutato questa etichetta dichiarando soltanto di “aver moderatamente letto parecchi libri, anche quelli del mondo latino”.

Irpino di Guardia Lombardi, quindici chilometri dalla Nusco demitiana, è stato innanzitutto uno studioso che ha approfondito ogni materia. Con la sua cultura umanistica – compagno di studi del quasi compaesano Ciriaco De Mita alla Cattolica di Milano, docente universitario di storia di lingua e letteratura latina a Parma, fratello di Lucio, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche dal 1997 al 2003 – ha fatto onore alla funzione politica e alle aule di Montecitorio. Come scrive giustamente Angelo Picariello nelle pagine di Avvenire “è stato riluttante all’esercizio e all’esibizione del potere”: infatti è stato ministro una sola volta, all’Istruzione, e anche un po’ di malavoglia.

Come grande meridionalista è stato a lungo presidente dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno, fondata nel 1910, ricoprendo il ruolo che è stato di Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Umberto Zanotti Bianco e Manlio Rossi Doria. Basterebbe questo per inquadrarne la grande statura morale e culturale.

Bianco è stato tra i fondatori dell’Ulivo, ma non ha mai voluto aderire al Partito democratico. Sì, uomo d’altri tempi.

Domenico Mamone