La rivolta delle campagne

Domenico Mamone
04/02/2024
Tempo di lettura: 4 minuti
campagne, agricoltura

La protesta ha avuto inizio in Germania, dove per controbilanciare in particolare le spese per il conflitto in Ucraina s’è pensato di tagliare i fondi per l’agricoltura. Ma l’incendio s’è presto esteso in tutta Europa perché il fuoco sotto la cenere del nostro comparto primario, l’attività più antica e preziosa per il benessere umano, non s’è mai spento. Da decenni, purtroppo.

Se uno Stato, costruito sulle relazioni umane e sulla socialità, ha bisogno di pagare direttamente i professori per assicurare la trasmissione dei saperi, le forze dell’ordine per garantire la sicurezza o i magistrati per tutelare la giustizia e tante altre professionalità per far funzionare al meglio i meccanismi istituzionali, al di là che ci si riesca o meno, i settori produttivi, a cominciare dagli imprenditori agricoli, debbono essere analogamente supportati perché – per quanto operanti in una sfera privata – svolgono una funzione basilare di servizio pubblico. E se i punti vendita si riempiono sempre più di prodotti dalla qualità e dalla provenienza discutibili, specie quelli che arrivano dall’estero, il ruolo del piccolo coltivatore italiano acquisisce valore aggiunto nell’offrire per lo più alimenti territoriali, quindi tipici e genuini, spesso a chilometro zero.

La protesta esplosa in queste ultime settimane ha molte anime, ma alcuni temi – da noi pienamente condivisibili – accomunano tutti gli agricoltori.

A cominciare dall’atavica questione della “giusta remunerazione”, cioè dal fatto che un coltivatore deve essere messo in condizione di guadagnare e non di doversi indebitare per poter mandare avanti l’azienda che è stata del padre, del nonno e spesso di precedenti antenati. Tutti i costi di produzione sono aumentati all’inverosimile e i coltivatori non ce la fanno più.

Una realtà aggravata dall’enorme differenza tra quanto viene pagato un prodotto al contadino e a quale prezzo finisce nella grande distribuzione: il latte, per fare un esempio, viene acquistato ad una cinquantina di centesimi dal produttore e finisce nei frigoriferi dei negozi mediamente prezzato tra un euro e mezzo e due euro.

Un nodo emerso già più volte in passato, ma mai risolto a causa dell’enorme potere delle multinazionali del settore, abili spesso anche nel lobbismo verso la politica italiana e soprattutto comunitaria.

Analogamente le proteste riguardano l’alto costo del gasolio, tra 1,10 e 1,30 euro al litro, con la prospettiva che le attuali agevolazioni cesseranno tra due anni in tutta l’Unione europea.

C’è poi la questione della transizione ecologica, dell’ambientalismo, del “green deal” europeo. Le norme che, in nome della sostenibilità, impongono restrizioni alle aziende comunitarie costituiscono un fardello che le mette in ginocchio rispetto alla concorrenza di Paesi dove quasi non esistono controlli: a noi si chiede di ridurre l’uso dei fitofarmaci (della metà entro il 2030) o di tagliare drasticamente le emissioni nocive nel settore zootecnico, passaggi per i quali sono necessari rilevanti investimenti, mentre dall’estero entrano tranquillamente i prodotti a prezzi stracciati, pieni di pesticidi, quasi sempre gestiti dalle solite multinazionali.

Ci sono poi aspetti più tecnici: l’obbligo, previsto dalla Pac, la Politica agricola comune, di tenere a riposo il 4% dei terreni come condizione per poter accedere ai contributi comunitari è insensato. Nel 2023 c’è stata una deroga, probabilmente estesa anche al 2024, ma non si può andare avanti con queste spade di Damocle.

Superando il capitolo delle rivendicazioni, c’è poi l’aspetto politico: le proteste sono multiformi e come tali, se non concentrate su specifici obiettivi, rischiano di finire comunque nel cortocircuito con le istituzioni. Cioè da una parte il “popolo dei trattori” manifesta l’esigenza di non volere bandiere, anche perché quelle alzate rischiano di rappresentare chi ha gestito per anni il settore; dall’altra c’è l’esigenza dei maggiori sindacati di settore di non essere estromessi dall’utenza di riferimento.

Insomma, occorre mai come oggi una rappresentanza al passo con i tempi. Perché c’è il serio rischio che la protesta possa essere svilita o sgonfiata dai protagonismi personali, come avvenuto in precedenti ondate. O strumentalizzata. Qualcuno, ad esempio, ha riesumato il caso dei “forconi” di esattamente dieci anni fa, quasi scomparsi dopo una manifestazione flop a piazza del Popolo a Roma: non a caso i leader di quel movimento sono riapparsi sulla scena in questi giorni in cerca di riscatto.

Certo, il movimento stavolta ha carattere internazionale e il cuore delle recriminazioni sta in quell’Europa che politicamente si rinnoverà con le urne tra meno di cinque mesi. Con una nuova castagna da togliere dal fuoco.

Domenico Mamone