Il “corporate wellbeing”, oltre il welfare aziendale

Giampiero Castellotti
15/02/2024
Tempo di lettura: 11 minuti
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Nella definizione “corporate wellbeing”, sempre più utilizzata a livello internazionale, rientra sostanzialmente la promozione della salute fisica, mentale ed emotiva dei dipendenti di un’azienda. Questi programmi di benessere integrano il welfare aziendale e apportano nei posti di lavoro una concezione della persona nella sua interezza, comprendendovi anche lo “stare bene”.

Diversi studi attestano che il “corporate wellbeing” garantisce all’imprenditore significativi ritorni anche economici, in particolare grazie all’aumento della produttività e al calo dell’assenteismo.

Con il “corporate wellbeing”, quindi, il welfare aziendale può fare un “salto di qualità”, passando da puro beneficio fiscale a strategia di benessere organizzativo e personale. Tale nuova modalità di ascolto e supporto dei collaboratori consente di aumentare il loro engagement (+30%) e la loro produttività, insieme alla competitività dell’impresa sul mercato

Ciò emerge anche dalla ricerca Una nuova visione di corporate wellbeing: un valore per la strategia retributiva, una leva fondamentale di attraction ed engagement realizzata da The European House – Ambrosetti, in collaborazione con Jointly – prima B Corp in Italia nel “corporate wellbeing” – che ha analizzato l’impatto delle strategie di “corporate wellbeing” sulle aziende italiane.

Secondo i risultati dello studio, il beneficio che un collaboratore ottiene dai diversi servizi integrati all’interno di un piano di “corporate wellbeing” – incentrato cioè sul benessere organizzativo e personale (ad esempio asili nido aziendali, campus estivi destinati a figli collaboratori, sportello psicologico gratuito, servizi di rilevanza sociale a supporto della famiglia, servizi ricreativi, prevenzione) – supera di oltre quattro volte il valore economico dell’investimento sostenuto dall’impresa. 

Per esempio, a fronte di una spesa media dell’azienda di 2.500 euro pro capite, il valore reale per il collaboratore è di oltre 11.000 euro (con un coefficiente di moltiplicazione pari a 4,5).

Nell’ipotesi che tutti i collaboratori in Italia avessero a disposizione questo tipo di soluzioni, si potrebbe ottenere un incremento della spesa delle aziende fino a 45,3 miliardi di euro (ovvero 2,1 volte superiore rispetto ad oggi), con un valore di mercato creato fino a 204 miliardi di euro (1,5 volte la spesa in welfare delle famiglie italiane nel 2021).

Una situazione potenziale ben diversa da quella attuale: dal 2000 ad oggi, infatti, il sistema-Italia ha scontato una situazione di stagnazione della produttività e una minor crescita del Prodotto interno lordo nazionale rispetto agli altri principali Paesi europei, una condizione aggravata ulteriormente dalla crisi globale da Covid-19. 

Le aziende si trovano oggi a dover fronteggiare un alto costo del lavoro – il più alto a livello europeo –  una ridotta produttività e insieme una scarsa motivazione delle persone: i lavoratori italiani sono infatti tra i meno ingaggiati (solo il 5% del totale nel 2023) e tra i più esposti a rischio di stress sul luogo di lavoro (46% del totale si dichiara “molto stressato” nel 2023). 

Questo ha portato negli ultimi anni al fenomeno delle “grandi dimissioni”, che anche in Italia ha riguardato oltre 2,2 milioni di persone nel solo 2022.  La motivazione di chi cambia lavoro riguarda principalmente la scarsa attenzione dell’impresa verso il benessere individuale e il work-life balance: nell’assetto organizzativo delle imprese emerge sempre più un senso di insoddisfazione e malessere diffuso dei lavoratori che travalica la sfera lavorativa e professionale per estendersi alle condizioni di salute psico-fisica della persona (ad esempio, la sindrome di Burnout). Il peggioramento dello stato psicofisico dell’individuo comporta minore produttività e peggiori condizioni sul luogo di lavoro e nella vita quotidiana. Nell’attuale scenario, le aziende hanno sempre più difficoltà a trovare e trattenere i lavoratori.

Le imprese italiane hanno provato a rispondere a queste nuove sfide organizzative inserendo nei contratti aziendali un numero sempre maggiore di misure di welfare.

A gennaio 2024, secondo gli ultimi dati rilasciati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, il 61,1% dei contratti aziendali (sul totale dei contratti attivi) prevede questo tipo di misure (erano il 17% nel 2016 e il 57,4% nel 2020), incentrate però per la maggior parte su benefici fiscali. Supporti reddituali ancora lontani dall’essere uno strumento strategico di supporto al benessere organizzativo e personale.

Un welfare aziendale così strutturato risulta, infatti, meno efficace sia per le imprese – che non riescono ad utilizzarlo per aumentare produttività ed engagement – sia per i collaboratori.

La stragrande maggioranza (80%) di loro, infatti, dichiara di aspettarsi dall’azienda misure di benessere più specifiche ed utili, come servizi di assistenza, salute, istruzione e prevenzione, ovvero quello che viene chiamato, appunto, “corporate wellbeing”. Quando questi interventi sono implementati in modo organico all’interno della people strategy – ovvero di una politica di gestione aziendale che mette le persone al centro – permettono di ottenere effetti importanti sul coinvolgimento dei propri collaboratori.

In particolare, secondo i dati dell’Osservatorio Jointly Balance, condotto su un campione di 500 lavoratori, la presenza di un piano di “corporate wellbeing” – appunto, di welfare aziendale incentrato sul benessere organizzativo e delle persone, in modo organico e coerente – permette di aumentare l’engagement dei dipendenti fino al 30% e di incidere anche sul livello di soddisfazione dei lavoratori. Nelle aziende dove quest’ultimo è presente, i collaboratori si sentono più valorizzati (più 22 punti percentuali), più motivati e apprezzati (più 18 punti percentuali), più coinvolti (più 15 punti percentuali) e più responsabilizzati (più 9 punti percentuali).

A livello economico, inoltre, il “corporate wellbeing” può offrire un supporto alla copertura o all’ottimizzazione delle spese delle famiglie italiane, messe a dura prova dai nuovi bisogni nell’epoca post-Covid e dall’inflazione.

Pensiamo, per esempio, all’aumento delle spese per l’istruzione (più 5,3% medio annuo nel periodo 2017-2021), per la salute (più 4,2%), per le assicurazioni previdenziali e per la protezione del patrimonio (più 1,7%), senza contare quelle per l’assistenza alla famiglia (più 1,1%).

In tal senso, il “corporate wellbeing” può rappresentare un supporto concreto a quel 58,4% di famiglie italiane che – secondo l’elaborazione di The European House-Ambrosetti su dati Cerved “Il bilancio delle famiglie italiane”– oggi si vedono costrette a rinunciare ai servizi di assistenza ai bambini e di educazione prescolare, o a quel 57,4% che non può ricorrere a un supporto per l’assistenza a familiari anziani o bisognosi di cura, oltre che a un 54,6%  di famiglie che rinuncia ad accedere a prestazioni di tipo sanitario.

Inoltre, in un’ottica “allargata” di sistema-Paese, una maggiore offerta di servizi all’interno di un piano di “corporate wellbeing” porterebbe anche ad un “alleggerimento” dei costi dell‘assistenza e della previdenza pubblica. Oggi, infatti, un terzo (37,6%) delle entrate economiche di una famiglia (pari a un totale complessivo, nel 2021, di 782 miliardi di euro) è rappresentato proprio dai versamenti o rimborsi da parte dello Stato che costituiscono la seconda voce dopo la remunerazione da lavoro con 56,3% (42,9% per i dipendenti e 13,4% per i lavori autonomi). Allo stesso tempo, le prestazioni da welfare privato rappresentano soltanto il 2,7% del totale (20,9 miliardi di euro), e si suddividono in prestazioni assicurative e dei fondi complementari (9,4 miliardi di euro), altre prestazioni monetarie del welfare occupazionale (6,6 miliardi di euro) e aiuti personali (4,9 miliardi di euro).

In conclusione, quello che emerge dall’analisi congiunta della spesa in welfare dello Stato, delle famiglie e delle aziende è che a livello complessivo, la spesa delle famiglie in welfare è 6,45 volte più alta del totale investito in welfare da parte delle aziende italiane, pur essendo pari a poco meno di un quinto di quella dello Stato.

Con riferimento alle singole voci, se la previdenza rappresenta la principale sulla quale si concentra il welfare pubblico con oltre 400 miliardi di euro stanziati annualmente, gli investimenti specifici da parte delle famiglie non vanno oltre il 2% di tale cifra (8,3 miliardi di euro), in linea con le politiche di welfare delle aziende italiane che destinano alla spesa previdenziale 8,7 miliardi di euro. Al contrario, la spesa in assistenza rappresenta la prima voce di costo per le famiglie (oltre un terzo del totale, il 34,5%) e, al tempo stesso, è quella con il rapporto più alto rispetto alla spesa aziendale (47,1 volte superiore) e dello Stato (2,6 volte superiore), l’unica voce per la quale la spesa delle famiglie è più elevata di quella dello Stato.

Sia la spesa dello Stato, sia quella aziendale risultano, quindi, sbilanciate sulla componente previdenziale (rispettivamente 64,4% e 41% della spesa totale), ponendo un particolare aggravio per le famiglie sulle altre voci di spesa (assistenza familiare, sanità, istruzione, cultura e tempo libero, supporti al lavoro).

“In momento storico di forte insoddisfazione sul lavoro, è tanto più importante quindi per le aziende saper dare risposte soddisfacenti e passare da una concezione di welfare aziendale esclusivamente fiscale – ad una strategia di ‘corporate wellbeing’ che consenta sia di contemperare la perdita di potere d’acquisto dei salari con l’aumento del costo del lavoro, sia di rendere la propria offerta più attrattiva sul mercato del lavoro, in particolare per le nuove generazioni. In un Paese con un problema strutturale di produttività, un approccio integrato per supportare i collaboratori nella propria esperienza lavorativa, privata e lavorativa, è inoltre strumento prezioso per sostenere la motivazione e produttività del lavoro. Oggi solo una su dieci (12%) si è dotata di una strategia di ‘corporate wellbeing’ integrata nella people strategy, nonostante le iniziative dedicate al benessere siano sempre più diffuse. Tali iniziative spesso sono introdotte con una logica tattica e di breve termine e raramente sono accompagnate da un monitoraggio sugli impatti effettivi su benessere ed engagement (un caso su tre) o accompagnate da una quantificazione di impatto sulle retribuzioni – spiega Francesca Rizzi, Ceo e fondatricedi Jointly.

“Oggi le imprese italiane si trovano di fronte a una serie di fattori di discontinuità che impattano sulle logiche di sviluppo futuro del mercato del lavoro: da una parte, vi sono fattori esogeni come la tenuta complessiva del sistema di welfare nazionale, la crisi inflattiva che incide su salari e potere d’acquisto e la stagnazione demografica che porterà ad una riduzione della forza lavoro negli anni a venire e ad un aumento dei salari nella “guerra dei talenti’; a questi si sommano fattori endogeni come la difficoltà di recruiting – già oggi in Italia circa quattro lavoratori su dieci da assumere sono di difficile reperimento – e una crescente insoddisfazione dei collaboratori: nell’UE27+UK i lavoratori italiani sono tra i meno ingaggiati (all’ultimo posto) e tra i più stressati sul luogo di lavoro (al sesto posto, con il 46% del totale). Queste premesse ci hanno portato a focalizzare l’attenzione dello studio su come le imprese possono venire incontro alle nuove esigenze dei lavoratori, riconoscendo strumenti per il benessere individuale che non solo favoriscono il benessere organizzativo ma agiscono anche in modo positivo sulle logiche di attrazione, engagement e retention ed offrono un beneficio economico rilevante al lavoratore – commenta Pio Parma, Senior Consultant dell’Area Scenari e Intelligence di The European House – Ambrosetti e responsabile dello studio.

Dalla ricerca sono, inoltre, emerse alcune linee guida che le aziende dovrebbero seguire per adottare una strategia efficace di “corporate wellbeing”.

In particolare, sono state identificate cinque linee d’indirizzo (un meta-obiettivo e quattro proposte operative) finalizzate a promuovere un crescente benessere organizzativo in grado di incidere positivamente sui pilastri dell’attrazione, dell’engagement e della retention dei collaboratori contribuendo all’innovazione delle strategie retributive.

L’obiettivo è quello di favorire l’evoluzione delle politiche di welfare delle aziende italiane da un approccio tattico e frammentato all’adozione del “corporate wellbeing” come leva strategica per aumentare la competitività dell’impresa sul mercato, la produttività e la sostenibilità dell’organizzazione del lavoro, puntando sul miglioramento della capacità di attrazione dei talenti e facendo leva sulla valorizzazione sistematica degli elementi della strategia di “corporate wellbeing” all’interno delle attività di employer branding.

Allo stesso tempo, è necessario incrementare gli impatti degli interventi di “corporate wellbeing” sull’engagement, agendo su alcuni elementi quali: l’introduzione di strumenti strutturati di ascolto organizzativo a partire dai quali costruire gli interventi; coinvolgimento dei collaboratori nella co-progettazione e co-definizione dei percorsi di “corporate wellbeing” interni all’azienda; nuovi canali e linguaggi di comunicazione interna per valorizzare gli interventi proposti; formazione ai manager per favorire una cultura manageriale coerente e a supporto del modello di “corporate wellbeing”; monitoraggio costante dei dati di engagement e inserimento di Key Performance Indicator (KPI) target nei modelli di valutazione dei manager.

È poi possibile aumentare il tasso di retention dei collaboratori grazie all’offerta di servizi che favoriscano l’equilibrio vita-lavoro attraverso interventi che puntano a prevenire fenomeni di burnout, insoddisfazione e malessere, con azioni sistemiche e continue di miglioramento organizzativo e  sostegno alle necessità del singolo: una strategia di “corporate wellbeing” che favorisce la retention non potrà che essere sempre più personalizzata e dovrà avere capacità di evolversi lungo il ciclo dell’esperienza lavorativa del collaboratore.

Tutto questo non può che portare anche a un rinnovamento delle strategie retributive affiancando le componenti monetarie di base (fisso e variabile) e i benefit “monetari”, con le componenti e gli interventi di “corporate wellbeing”, quantificate con il reale valore trasferito.

Giampiero Castellotti