I rischi atomici nell’imprevedibilità del conflitto

Leonardo Mamone
23/04/2022
Tempo di lettura: 6 minuti

Sedici luglio 1945. Presso l’Alamogordo Bombing and Gunnery Range, 56 chilometri a sud-est di Socorro (Nuova Messico, Usa) viene fatta detonare la prima arma nucleare al mondo. È una bomba a implosione.

Trascorrono soltanto tre settimane e la mattina del 6 agosto 1945, alle ore 8:15, l’aeronautica militare statunitense sgancia la bomba atomica “Little Boy” sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo sarà la volta del lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

Il numero delle vittime dirette è stimato tra le 150mila e le 220mila. Quasi esclusivamente civili. 

Si tratta del primo ed unico utilizzo in guerra di armi atomiche, sebbene il loro sviluppo registrerà una pericolosa impennata negli anni successivi.

Perché la scelta ricadde proprio su tali obiettivi?

Il 5 luglio, dieci giorni prima dell’attacco, il comitato scelse quattro città da attaccare in ordine di preferenza: Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki. 

Anche Kyoto faceva parte dell’elenco, ma era stata eliminata dalla lista per il suo valore culturale e simbolico. La decisione finale fu dettata dal caso: gli aerei si sarebbero diretti sulla città con le migliori condizioni meteo.

Alle 7:14 del 6 agosto 1945 dall’aereo da ricognizione inviato sopra Hiroshima partì la comunicazione che il cielo era libero da nuvole per sette decimi e dunque il colonnello Tibbets trasmise il “ricevuto” e diresse il suo aereo sulla città. Quasi esattamente un’ora dopo, alle 8.15, sganciò la bomba sopra Hiroshima.

Lo stesso successe nel caso del bombardamento di Nagasaki.

Le due città, dopo le esplosioni, risultarono isolate: l’operatore di controllo di Tokyo della Società radiotelevisiva giapponese constató che la stazione di Hiroshima non era più in onda. Fallì, inoltre, il tentativo di ristabilire il programma con un’altra linea telefonica. Il centro telegrafico nazionale si accorse che la stessa sorte era toccata alla linea telegrafica principale, che aveva smesso di funzionare poco a nord di Hiroshima. Da alcune piccole fermate ferroviarie, entro 16 chilometri dalla città, giunsero notizie confuse di una terribile esplosione a Hiroshima.

A Tokyo le prime informazioni ufficiali dell’accaduto giunsero dall’annuncio pubblico della Casa Bianca a Washington, sedici ore dopo l’attacco nucleare. 

Terribili furono le conseguenze a lungo termine delle esplosioni, tra cui l’avvelenamento da radiazione e le necrosi, che provocarono malattie e morti successive al bombardamento per circa il 20 per cento4 di coloro che erano sopravvissuti all’esplosione iniziale. 

Drammatico il bilancio. Il numero di vittime salì a circa 200mila alla fine del 1945. Molte migliaia di persone soffrirono i danni conseguenti all’esposizione ai raggi: dei duecentomila morti fanno parte sia coloro che si trovavano in città al momento dell’esplosione sia chi successivamente si è trovato esposto al fallout.     

Tali esplosioni non si sono più verificate in guerra. Ma molteplici test nucleari sono aumentati nel tempo, soprattutto durante la guerra fredda.

Ad oggi Stati Uniti d’America, Russia (succeduta all’Unione Sovietica), Regno Unito, Francia e Cina, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono considerati paesi con armi nucleari.

Oltre a questi, altri quattro Stati, non aderenti al TNP (Trattato di non proliferazione nucleare, il quale si basa su tre principi: disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare) hanno sviluppato e sono in possesso di armamenti nucleari: si tratta di India, Pakistan, Corea del Nord (aderente al TNP nel 1985 ma ritiratasi nel 2001) ed Israele (il governo israeliano non ha però mai confermato ufficialmente di possedere un arsenale nucleare).

La NATO si adopera per preparare gli Stati aderenti al “Patto Atlantico”, non dotati di propri arsenali, all’uso di armi atomiche tattiche e strategiche in caso di conflitto. Dunque, l’Organizzazione del Trattato Atlantico, dotata di proprio arsenale, disloca un certo numero di testate sul territorio di un alleato che ne è sprovvisto.

Il nostro paese non produce né possiede armi nucleari, ma partecipa al programma di “condivisione nucleare” della NATO. “Ospitiamo” soldati e armi americani, ma non abbiamo possibilità di utilizzare gli armamenti. Il ruolo dei militari nelle basi italiane è quello di assicurare un supporto logistico con aerei a “duplice capacità”, cioè in grado di poter trasportare armi convenzionali e armi atomiche.

Per evidenti motivi di sicurezza, la NATO non ha mai comunicato ufficialmente quante siano le bombe atomiche presenti nei vari paesi dell’Alleanza e, tantomeno, la loro precisa localizzazione. 

Secondo varie ricostruzioni di stampa, tra cui quella di Sky Tg 24, il numero di bombe atomiche presenti in Italia sarebbe compreso tra le 70 e le 90 unità.

Il nostro paese dispone di molti rifugi antiatomici e accoglie diverse basi Nato e americane. Stando a quanto riferito dal Messaggero, le basi presenti nel nostro paese che ospitano effettivamente le bombe atomiche sono solo due e, nello specifico, quella di Aviano, vicino a Pordenone, e quella di Ghedi, in provincia di Brescia.

Il suolo italiano ospita 120 basi NATO ufficialmente dichiarate e i militari statunitensi in Italia sono circa 13mila.

Quando si parla di base NATO ci si riferisce a un luogo, una base appunto, dove vengono accolti soldati e materiale; essa gode di extraterritorialità, non è dunque soggetta ai poteri giuridici dello Stato in cui si trova.

L’attuale conflitto in Eurasia, che vede contrapposte Ucraina e Russia, cioè una potenza mondiale e un paese sempre più vicino al “mondo occidentale”, preoccupa perché gli ex sovietici sono in possesso dell’arsenale nucleare primo nel mondo sul piano quantitativo e secondo su quello tecnologico. Si parla di non meno di seimila testate nucleari e avanzati vettori in grado di recapitarle fino a 10mila chilometri di distanza e oltre.

L’invasione russia dello Stato sovrano ucraino rischia di degenerare. Gli Stati Uniti finora sono intervenuti solo indirettamente nel conflitto, limitandosi alla fornitura di armi e all’addestramento dei soldati ucraini. Ciò sulla base di una storica per quanto tacita intesa: tendenzialmente le due superpotenze si astengono dall’intervenire nella zona di influenza del nemico. Come in passato i sovietici non intervengono nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, dunque in America del Sud e Medio Oriente (ad esempio, durante colpi di Stato finanziati dalla Cia), mentre gli Usa non invadono i “cortili” dei sovietici, in Asia centrale e in Europa orientale (durante, per esempio, le rivoluzioni anti-sovietiche in Ungheria e Cecoslovacchia).

È anche per tali motivi che non è stato possibile, per la NATO, istituire una “no fly zone” in Ucraina: la Russia avrebbe probabilmente violato volontariamente il divieto e non appena uno dei suoi aerei sarebbe stato abbattuto, avrebbe utilizzato tale proposito per entrare in guerra, trascinandovi l’intera NATO.

Oggi, come in passato, ci troviamo in bilico tra due potenziali destini per l’umanità, tra guerra e pace. La strada per la pace è purtroppo ardua: spintasi la Russia così in avanti, è faticoso pensare ad una rapida risoluzione del conflitto.

La guerra rischia di riportare indietro di vari anni il mondo e di un annullare molti dei progressi: basta pensare alla sola possibilità della riapertura di numerose centrali a carbone che nuocerebbero al clima e costituirebbero un concreto freno alla transizione ecologica in Italia e in Europa

Leonardo Mamone