Giustizia riparativa, incontro tra l’ex brigatista Faranda e la figlia di Aldo Moro

Giampiero Castellotti
24/02/2024
Tempo di lettura: 5 minuti
Moro Faranda

“Due testimoni di anni pesanti della nostra Repubblica”. Così don Marco Fibbi, cappellano coordinatore degli istituti penitenziari di Rebibbia, ha presentato Agnese Moro, figlia dello statista democristiano Aldo, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, e l’ex brigatista Adriana Faranda, protagoniste del primo dei tre incontri sulle “rinascite” a partire dal carcere, promossi dall’Ufficio pastorale carceraria della Diocesi di Roma e denominati “Dov’è tuo fratello?”.

Le due donne, la prima che subito a 25 anni il rapimento e l’assassinio del padre e la seconda parte del gruppo che lo ha rapito, da anni seguono un percorso di “giustizia riparativa” promosso dal gesuita padre Guido Bertagna all’interno di un gruppo di una sessantina di componenti che comprende sia vittime sia carnefici.

Il vescovo della Pastorale carceraria, monsignor Benoni Ambarus, introducendo l’evento ha ricordato che “l’indifferenza crea distanze e rancore” per cui “occorre mettere al primo posto le persone e non gli aggettivi affinché il male non possa dire l’ultima parola”.

Trio 1

“L’oggetto della giustizia riparativa secondo me è l’irreparabile – ha spiegato Agnese Moro. “L’irreparabile è una bestia pericolosa perché produce scorie radioattive che trattengono il passato e generano effetti che si moltiplicano nel tempo. Un prodotto dell’irreparabile è l’immobilità: una parte di te si congela e il passato ti accompagna ogni giorno. Tutto si ripete: tuo padre continua ad uscire di casa, si muove con gli uomini della scorta, viene rapito, questi vengono uccisi, nessuno lo aiuta, viene ucciso. Tutto ciò assorbe tantissime energie e produce terribili sentimenti come odio, rancore, angoscia e anche senso di colpa per non essere riuscita a riportare papà a casa. È un orrore difficile da raccontare – ha continuato Agnese Moro – perché si vive in un perenne silenzio che occupa uno spazio pazzesco e include tanti fantasmi, compresi quelli di coloro che non hanno voluto aiutare papà. Un silenzio rivolto anche a proteggere i figli dall’idea che la vita possa riservare qualcosa di terribile che non meriti. Un’esistenza complicata, pesante, in cui non sei una persona ma rappresenterai sempre un pezzo di storia, con una maschera che ti viene imposta”.

Poi l’incontro con padre Bertagna.

“Sì, con il tempo ho capito che questa strategia del silenzio era sbagliata, anche perché ognuno dei miei tre figli ha scoperto a modo suo la storia di mio padre ed io ho solo sofferto. A dicembre 2009, dopo 31 anni dalla morte di mio padre, padre Bertagna ha proposto la creazione di un luogo di dialogo, appunto di questa giustizia riparativa fondata sulla condivisione e sul dialogo. All’inizio ho detto di no. Poi ho capito che non lo faceva per interesse, ma soltanto perché si era accorto del dolore delle persone, con il desiderio di poterle accompagnare in un percorso. Quindi ho detto di sì, seppur con timore, e mi sono resa conto che in 31 anni nessuno si era interessato al mio dolore. Abbiamo avuto una serie di incontri per sette anni in modo riservato, rispettoso, libero”.

Adriana Faranda ha raccontato che, paradossalmente, se nel periodo della clandestinità come brigatista si è separata dal mondo e dagli affetti, con il carcere ha avuto la possibilità di riattivare relazioni e contatti, a cominciare da quello con la madre e soprattutto con la figlia. E lì s’è rafforzato il desiderio del cambiamento.

“Nel carcere tu sei legato al tuo reato, è difficile essere riconosciuto come persona – ha esordito l’ex brigatista. “Inoltre i più vivono quel periodo come tempo di attesa. Purtroppo non si misura mai il tempo della carcerazione con le relazioni necessarie per un’evoluzione positiva, per la crescita. La funzione del carcere dovrebbe essere proprio quella di educare alla responsabilità, di far acquisire la consapevolezza che ogni scelta ha conseguenze che si snodano nel tempo e abbracciano molte più persone di quelle che si immagina. Occorre la ricostruzione delle relazioni con le persone che hai ferito e ti senti quindi incompleto. Hai bisogno di affrontare tutto questo. Ecco perché ho sempre sentito il bisogno di incontrare Agnese Moro, per confrontarmi con il passato e con il dolore che c’era negli altri. Solo chi ha provato un dolore come quello di Agnese può paradossalmente capire quello che ho provato io. Sono dolori diversissimi ma che si accomunano: mi sono sentita compresa da Agnese come da nessun altro. È necessario condividere il peso del dolore per superare quell’eterno senso di solitudine che nasce dalla sensazione di rimanere per sempre diversa dagli altri”.

Castellotti Moro Page 0001
In primo piano, monsignor Benoni Ambarus di fianco al nostro Giampiero Castellotti

Abbiamo chiesto ad Adriana Faranda qual è il suo rapporto con i giovani che incontra nelle scuole e che spesso ignorano totalmente quel periodo.

“Alcuni al termine degli incontri mi chiedono come debbono affrontare la voglia di cambiare il mondo, l’inquietudine, lo smarrimento. Il mio consiglio è quello di costruire partendo dalle relazioni, tessere rapporti. Uno dei nostri errori è stato quello di volere cambiare tutto rapidamente. Così spero che questi nostri incontri in tutta Italia possano avere piccole ricadute, non risolutive, ma sicuramente importanti.

Un altro aspetto fondamentale è il dubbio. Oggi i giovani vivono il problema della non cittadinanza data dal dubbio. Invece è fondamentale nella vita perché ti fa capire che non esistono certezze assolute. Le parole, più che potere, hanno potenza”.

L’incontro si è tenuto presso il Pontificio seminario maggiore in piazza San Giovanni in Laterano.

Giampiero Castellotti