Bassa occupazione femminile, non è solo questione di maternità

Giampiero Castellotti
11/03/2024
Tempo di lettura: 5 minuti
Emilio Colombo
Emilio Colombo

I problemi di scarsa natalità e scarsa occupazione femminile sono ormai strutturali nel nostro Paese. Nascono pochi bambini e poche donne lavorano. Come fare ad invertire questa tendenza? Confrontando la situazione italiana con quella europea si può vedere come ci siano paesi come Irlanda, Francia, Danimarca e Islanda dove il numero medio di figli per donna è superiore a 1,7 e dove il tasso di occupazione è superiore al 70%. In Italia, come in Grecia e Spagna, invece, la fecondità media è bassa (inferiore a 1,5 figli per donna) e l’occupazione femminile è inferiore al 65%. Nel 2021 in Italia il tasso di occupazione delle donne tra i 20 e i 64 anni era al 53,2%, mentre il tasso di fecondità, il numero medio di figli per donna, era 1,25.

“Guardando al confronto con gli altri paesi europei si può dire che la maternità non è di per sé ostativa all’occupazione – spiega Emilio Colombo, coordinatore del Comitato scientifico di Randstad Research. “Anzi, proprio i Paesi con il tasso di occupazione femminile più alto sono quelli caratterizzati dal maggior tasso di fertilità. Viceversa i Paesi come il nostro, dove il tasso di occupazione femminile è più basso sono quelli caratterizzati dal tasso di fecondità minore. La spiegazione della scarsa occupazione femminile va dunque ricercata in altri fattori, dalla cultura all’inefficacia delle politiche di conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa”.

La nuova nota sull’occupazione femminile elaborata da Randstad Research, centro di ricerca sul lavoro promosso da Randstad, mette anche in relazione il tasso di fecondità e il tasso di occupazione femminile nelle regioni italiane. Dai dati si vede come non ci sia molta differenza nel numero medio di figli per donna tra le regioni con bassa o alta occupazione femminile. Fa eccezione la Provincia Autonoma di Bolzano in cui l’occupazione femminile (20-64 anni) nel 2021 era pari al 68,5% e il tasso di fecondità pari a 1,72. Nelle regioni del Sud troviamo tassi molto bassi di occupazione e ciò potrebbe essere legato a fattori culturali che vedono la donna maggiormente dedicata alla cura della famiglia. Una spiegazione alternativa e complementare vede le scarse opportunità offerte dal mercato del lavoro nel Meridione come la causa principale del fatto che le donne in queste regioni siano più restie a cercare un’occupazione adeguata alle proprie aspirazioni.

Nello studio elaborato da Randstad Research si evidenzia anche come l’occupazione delle donne sembri essere influenzata non solo dall’essere madri ma anche dal vivere in coppia. Se il tasso di occupazione delle donne single senza figli si attesta all’81%, quello di chi vive in coppia, sempre senza figli, scende al 76%. Un fenomeno che sembra non essere in linea con ciò che accade negli altri Paesi europei dove il vivere in coppia non disincentiva l’occupazione femminile (84,2% vs 83,9%).

“È probabile che nel nostro Paese la formalizzazione di un’unione implichi una possibile suddivisione dei ruoli – spiega ancora Emilio Colombo. “Osservando l’occupazione femminile per donne coniugate e non, anche in assenza di figli, si nota come le donne non coniugate presentano tassi di occupazione molto più elevati in tutte le classi di età. Le differenze più evidenti si riscontrano nelle giovanissime tra i 15 e i 24 anni: per le coniugate il tasso di occupazione è pari al 30,8% contro l’87,9% delle non coniugate”.

In Italia, nel 2022, su 10,6 milioni di coppie, il 73,7% aveva almeno un figlio. Tra le coppie in cui entrambi i partner lavorano, il 41,6% è senza figli e il 49% ha almeno un figlio. Tuttavia, se osserviamo le coppie in cui lavora solo uno dei due partner, vediamo che il 32% di esse non ha figli e il 39,3% ha almeno un figlio. A lavorare, poi, è solitamente il padre. Accade in più di 8 coppie su 10. Sono poco più di 6 su 10, invece, le coppie senza figli in cui a lavorare è solo l’uomo. “Tra le soluzioni che le coppie adottano per conciliare lavoro e vita privata c’è spesso il farsi carico, da parte delle donne, del lavoro di cura di figli e familiari, rinunciando in parte o totalmente all’impegno lavorativo fuori dalla famiglia – continua Colombo. “I motivi alla base di questa scelta sono diversi e includono un retaggio culturale che fa ricadere le responsabilità di cura sulle donne, la mancanza di servizi a sostegno dei genitori, in primis la carenza di posti negli asili nido, e il divario di retribuzione tra uomini e donne”.

Uno degli strumenti che potrebbero essere utilizzati per distribuire i carichi legati alla cura dei figli tra i due genitori è quello del congedo di paternità. L’introduzione dell’astensione obbligatoria dal lavoro per 10 giorni, per i padri lavoratori dipendenti, ha effettivamente portato un incremento nell’utilizzo del congedo di paternità. Secondo i dati Inps, dal 2018 al 2022 i beneficiari dei congedi sono aumentati di circa 50mila unità e dal 2021 al 2022 c’è stata una crescita dell’11%. L’Italia, però, si dimostra ancora molto indietro, su questo fronte, rispetto agli altri Paesi europei. Il numero di giornate totalmente retribuite in cui il padre può assentarsi dal lavoro, in Italia, sono ancora molte contenute se confrontate con la durata dei congedi riservati ai padri negli altri Paesi Europei. L’Italia si colloca come una delle peggiori in questa classifica, con 2 settimane di congedo obbligatorio. La Slovacchia e la Norvegia, ai vertici, offrono solamente congedi facoltativi (rispettivamente 28 settimane al 75% della retribuzione la Slovacchia e 15 al 100% la Norvegia). La Spagna offre 16 settimane di congedo obbligatorio. In Francia si ha un congedo obbligatorio di 5 settimane al 91,4% e uno facoltativo di 26 settimane al 13,5%.

Giampiero Castellotti