Stellantis, ultimo tassello di una lunga crisi industriale

Domenico Mamone
16/12/2024
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La crisi di Stellantis, che al di là degli ultimi dati su produzione e vendite ha radici profonde, s’inserisce sia nei più generalizzati problemi dell’industria europea dell’auto (vedi Volkswagen in Germania) sia nelle difficoltà dell’industria italiana nel suo complesso, strettamente connessa con quella europea, tedesca in primis.

La nostra produzione industriale registra un calo da ben venti mesi, che trascina gli ordinativi e il fatturato. Resistono, ma non sappiamo per quanto, l’export e l’occupazione, a cui sta assicurando una mano anche il Pnrr.

Nel caso italiano, la crisi si trascina da tempo. Dopo il boom economico a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, caratterizzato principalmente dalla voglia di rinascere dopo il conflitto bellico e dalle riconosciute doti del “made in Italy”, come la creatività e la resilienza, il tessuto economico del nostro Paese ha vissuto principalmente di rendita. Da una parte, le sorti delle poche grandi industrie sono rimaste nelle mani di alcune dinastie familiari che hanno beneficiato del massiccio intervento pubblico grazie al rilevante numero di dipendenti, in particolare quelli presenti nel nostro Mezzogiorno. Dall’altra si è sviluppato un dinamico tessuto produttivo fatto di piccole aziende, per lo più a carattere familiare, molto specializzate e orientate all’export di prodotti di qualità. Collegato a questa caratteristica s’è imposto anche il fenomeno dei “distretti” d’eccellenza, in particolare nel settore dell’artigianato e del tessile.

La sostanziale staticità del settore industriale italiano è conseguenza anche della costante crescita del turismo, e del terziario in genere, principale linfa per il benessere della piccola imprenditoria, principalmente di natura familiare.

Lo Stato italiano, rinunciando di fatto ad una politica industriale, a favorire l’aggiornamento e l’innovazione aziendale, nonché una formazione efficace dei lavoratori (il mismatch è perenne), ma anche a promuovere investimenti dall’estero, ha preferito per decenni foraggiare i pochi grandi gruppi italiani (che hanno quindi limitato gli investimenti) e garantire un sostanziale benessere al Paese grazie al debito pubblico. L’intervento s’è orientato verso il mantenimento in vita di aziende ormai cotte, verso una diffusa cassa integrazione utilizzata spesso come beneficio pubblico e verso agevolazioni fiscali temporanee o sussidi a pioggia. È invece mancata una chiara programmazione per il futuro, frutto di una profetica visione. Si dice, amaramente, che chi ha la pancia piena non si muove. Ed è stato così.

Le crisi cicliche del nostro settore manifatturiero sono state associate più a dinamiche congiunturali, legate principalmente ai trend del commercio internazionale, che non strutturali. Tuttavia oggi c’è una prevalente visione pessimista che collega i numeri negativi al lento ma inesorabile declino dell’Europa rispetto ai risultati brillanti di altri continenti, più abili a sfruttare le opportunità offerte dalla nuova ondata di alta tecnologia.

L’Europa politica, da parte sua, sul fronte economico non s’è attivata certo in modo proficuo negli ultimi anni. La debolezza istituzionale di Bruxelles ha favorito la disunione: ogni Paese è andato per conto suo ed è mancata, in particolare, la difesa collettiva delle produzioni comunitarie, l’armonizzazione delle regole, il fisco comune. La pessima gestione dell’immigrazione, ma anche della transizione verde, ha alimentato un diffuso e crescente euroscetticismo che, di fatto, sta affondando lo spirito solidale comunitario. E la Banca centrale europea non è esente da alcune colpe, a cominciare dal mantenimento di tassi elevati.

Le crescenti sfide imposte dalla globalizzazione e l’affacciarsi di nuovi competitor “al ribasso”, specie in Asia, grazie ad un costo del lavoro decisamente più basso, ha reso sempre più difficile continuare a fare impresa in Italia. A ciò si sono aggiunti ritardi nelle infrastrutture, specie nel Sud Italia, paralleli ad alcuni disastrosi interventi assistenziali (le “cattedrali nel deserto”), ma anche i costi non concorrenziali delle materie prime, a cominciare da quello per l’energia, determinato dalla scelta di rinunciare al nucleare a differenza di nazioni limitrofe alla nostra. La guerra in Ucraina ha ulteriormente appesantito il problema. Ed il ritorno di Trump (e l’irrompere di Musk) assicurerà altra linfa alle grandi imprese americane del gas e del petrolio, che controllano di fatto le infrastrutture tecnologiche europee.

In Italia abbiamo assistito, negli ultimi decenni – dopo la non certo esaltante parentesi degli anni Settanta sul fronte del costo del lavoro che ha accentuato la crisi di competitività – alla delocalizzazione di sempre più aziende, fenomeno parallelo alla parcellizzazione degli stabilimenti anche per smembrare la forza-lavoro, e alla vendita (spesso “svendita”) di tanti asset d’eccellenza del “made in Italy”. Così abbiamo perso buona parte dei marchi dell’abbigliamento, della moda e di quel “lusso” che costituiva il nostro fiore all’occhiello nel mondo, ma anche molti brand dell’industria alimentare, chimica, meccanica. A ciò si aggiunge l’inconsistenza del nostro mercato finanziario.

Oggi il preoccupante quadro è intensificato dalla crisi del cuore industriale comunitario. La “locomotiva” non tira più, Germania e Francia sono in netta difficoltà e la situazione politica dei due Paesi in fondo riflette quella economica e sociale, caratterizzata da un diffuso malcontento degli elettori, accentuato da un’immigrazione fuori controllo. Dal momento che il tessuto industriale del nostro Nord Italia è strettamente connesso con i due Paesi europei, in particolare con la Germania, il rischio del “contagio” è reale, benché la conformazione frazionata delle nostre filiere produttive assicuri maggiore flessibilità e resilienza.

Resta il nodo dei ritardi, in particolare sulle nuove tecnologie, sull’intelligenza artificiale, sulla transizione verde, su ricerca & sviluppo, laddove la concorrenza asiatica e americana è lungimirante e agguerrita, quest’ultima favorita dal prossimo ingresso di Trump alla Casa Bianca. Ma c’è anche la crisi dei consumi determinata dal crollo della classe media, nonché una certa saturazione degli stessi in Europa, parallela alla loro trasformazione (ad esempio c’è sempre più acquisto di usato rispetto al nuovo – in linea con l’economia circolare – ma anche il passaggio dal possesso al servizio, attuato principalmente dai giovani). E non va ignorato l’inverno demografico, che riduce i lavoratori e i consumatori a fronte del crescente numero di assistiti, per lo più appartenenti alla quarta età.

Come uscirne, o perlomeno attenuare la crisi? Innovare è una strada obbligata per restare competitivi nelle sfide globali. E sul fronte pubblico va ricordato che gli investimenti italiani (ed europei) in ricerca & sviluppo restano un’inezia rispetto ad altri Paesi che non conoscono crisi, specie in Asia.

Domenico Mamone