Le elezioni americane di novembre potrebbero essere viste come un chiaro voto per il cambiamento, con una vittoria repubblicana alla Casa Bianca e al Congresso. Tuttavia, rispetto agli altri principali Paesi sviluppati, l’economia statunitense era probabilmente la meno bisognosa di cambiamenti.
Dopo la pandemia, nonostante un aggiustamento del livello dei prezzi di circa il 20%, il tenore di vita reale degli Stati Uniti (misurato dal PIL reale pro capite) è stato superiore a quello di quasi tutti i Paesi dell’OCSE e questa relativa forza economica si riflette nel buon andamento dei mercati azionari statunitensi. Altre regioni, tra cui la Cina, l’Europa e il Regno Unito, erano più bisognose di cambiamenti, almeno stando alle rispettive performance economiche e azionarie post-pandemia.
Dopo aver vinto una campagna elettorale all’insegna del cambiamento, cosa cercheranno di ottenere il presidente eletto Donald Trump e la sua amministrazione per l’economia statunitense – e come?Il miglioramento del tenore di vita degli Stati Uniti dopo la pandemia non è stato uniforme per tutti. I segnali dell’amministrazione entrante indicano la possibilità di concentrarsi su “policy pivot” che, a loro avviso, porteranno a una distribuzione più equa dei guadagni economici degli Stati Uniti. Sulla base dei commenti pubblici di Trump e delle persone che occupano le posizioni più importanti in materia di politica economica, riteniamo che questi “policy pivot” potrebbero cercare di affrontare tre squilibri di lungo periodo:
– Lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti;
– Lo squilibrio fiscale degli Stati Uniti;
– Lo squilibrio tra la quota di reddito nazionale del lavoro e del capitale (con il capitale rappresentato dai detentori di azioni) – la quota del lavoro è diminuita drasticamente negli ultimi decenni. Correggere gli squilibri accumulati nel corso di decenni potrebbe essere una transizione economicamente dolorosa, sia a livello nazionale che al di fuori degli Stati Uniti.
Ciò solleva una domanda importante per il secondo mandato di Trump: quanta sottoperformance del mercato azionario statunitense è disposto a tollerare Trump? Molti investitori ritengono che la risposta sia “non molto” e che i mercati azionari statunitensi siano il modo in cui il presidente entrante valuterà il successo delle sue politiche. Quanto attualmente prezzato dal mercato suggerisce una visione generale secondo cui i titoli azionari costituiranno un vincolo per qualsiasi ambizione di modificare in modo significativo i deficit commerciali e fiscali. Pertanto, una domanda chiave per il 2025 è se Trump sorprenderà con azioni più aggressive.
Michael Pettis, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace, ha spiegato come il deficit commerciale degli Stati Uniti sia il risultato di politiche industriali adottate altrove. La Cina in particolare, ma anche la Germania, il Giappone e altri paesi, sono stati in grado di registrare avanzi commerciali consistenti grazie a politiche governative che sovvenzionano efficacemente i propri settori manifatturieri facendo aumentare i risparmi delle famiglie. Questo processo, che è diventato il cuore della strategia di crescita trainata dalle esportazioni della Cina, ha anche creato un significativo eccesso di risparmio che doveva essere reinvestito. I mercati dei capitali statunitensi, relativamente aperti e stabili, hanno dato spazio a questi risparmi, contribuendo a creare bolle speculative nel corso degli anni e a rafforzare il dollaro statunitense. L’eccesso di risparmio estero ha coinciso anche con una elevata spesa degli Stati Uniti.
La contrazione del settore manifatturiero e la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori – sviluppi economici che alcuni economisti occidentali (come David Autor del MIT) hanno definito “shock cinese” – hanno fatto sì che i salari reali ristagnassero, la polarizzazione politica si ampliasse e i deficit fiscali aumentassero. Nel corso del tempo, queste tendenze hanno aumentato la quota dei consumi sul PIL e ridotto il risparmio interno, mentre la quota del PIL della Cina nel settore manifatturiero è aumentata insieme al suo tasso di risparmio.
I vincitori di questo sistema sono stati l’industria straniera (soprattutto cinese), i proprietari di capitali e i consumatori statunitensi (grazie alla riduzione dei prezzi dei beni). I vinti sono stati le famiglie non statunitensi, che hanno dovuto sovvenzionare i rispettivi settori manifatturieri nazionali, il settore manifatturiero statunitense e i lavoratori della classe media americana.
Per correggere questi squilibri, i Paesi in surplus commerciale dovrebbero riequilibrare le proprie economie allontanandole dal settore manifatturiero, probabilmente attraverso riforme economiche che riducano i sussidi impliciti al settore manifatturiero e politiche fiscali mirate volte a stimolare i consumi delle famiglie. Se lo faranno è una questione aperta. Ad esempio, le argomentazioni economiche a favore di un’economia cinese più equilibrata sono in circolazione da un po’ di tempo, con scarso apparente interesse da parte dei funzionari del governo centrale cinese. Poiché la Cina è attualmente alle prese con una crisi pluriennale e su larga scala del settore immobiliare – e ha bisogno di stimoli alle famiglie per contrastare le tendenze deflazionistiche – gli interessi della Cina e degli Stati Uniti appaiono più allineati ora che in qualsiasi altro momento a memoria recente; eppure, i funzionari del governo centrale sembrano ancora riluttanti a stimolare direttamente il settore delle famiglie. Nel frattempo, i vincoli sul debito autoimposti all’interno dell’Eurozona – il freno all’indebitamento tedesco ne è un esempio lampante – potrebbero limitare gli aggiustamenti.
Se i Paesi in surplus commerciale non sono disposti o in grado di fare questi aggiustamenti, agli Stati Uniti non resta che cercare di attuare politiche che impongano effettivamente questi aggiustamenti. Tali politiche potrebbero includere l’implementazione di una tariffa universale più elevata (non solo sulla Cina o su altre regioni specifiche), o una tassa sugli investimenti esteri, mantenendo la capacità di limitare un ulteriore apprezzamento del dollaro. In altre parole, gli Stati Uniti dovrebbero orchestrare un’effettiva svalutazione del dollaro per forzare questi aggiustamenti. Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti implementano politiche per limitare il risparmio estero che entra nei mercati statunitensi, dovrebbero anche incrementare il risparmio interno, probabilmente attraverso una riduzione sostanziale del deficit pubblico.
Se questi importanti snodi politici e di mercato si dovessero realizzare, probabilmente assisteremmo a curve dei tassi d’interesse più ripide nelle regioni con mercati con forte surplus commerciale rispetto agli Stati Uniti.
L’aumento dei prezzi statunitensi – sia per effetto dei dazi sia di un dollaro più debole – potrebbe rallentare il ritmo dei tagli dei tassi della Federal Reserve (anche se riteniamo che i rialzi dei tassi rimangano improbabili), mentre un aggiustamento negativo dei prezzi relativi in altre regioni potrebbe accelerare i tagli delle banche centrali altrove.
Il miglioramento del deficit fiscale statunitense rispetto a una certa espansione nei paesi in surplus commerciale potrebbe far sì che i tassi statunitensi a lungo termine superino quelli di questi paesi (come abbiamo discusso in precedenza, mentre la traiettoria del debito statunitense a lungo termine continua a puntare verso l’alto, vediamo segnali di potenziali vincoli fiscali che potrebbero almeno limitare i costi aggiuntivi dell’estensione degli attuali tagli fiscali).
Se i vincoli politici di Washington – ricordiamo che i repubblicani hanno una maggioranza molto risicata al Congresso – limitano la misura in cui il deficit fiscale degli Stati Uniti può ridursi nello stesso momento in cui il governo scoraggia l’afflusso di risparmi esteri in eccesso, allora l’aumento dei rendimenti obbligazionari e una curva dei rendimenti dei Treasury Usa più ripida probabilmente coincideranno con l’aumento dei risparmi privati (o la riduzione degli investimenti) necessari per compensare l’afflusso di capitali esteri. In altre parole, questo aggiustamento potrebbe spingere l’economia statunitense verso una recessione.
Per i mercati azionari, le implicazioni di questi potenziali cambiamenti non saranno probabilmente positive. Infatti, una certa sovraperformance dei titoli obbligazionari a lungo termine sarebbe probabilmente compensata da un aumento dei premi per il rischio azionario (ossia il rendimento superiore al tasso “privo di rischio” che gli investitori azionari chiedono per assumersi il rischio). Una quota più elevata di reddito da lavoro negli Stati Uniti tenderà a erodere i margini e gli utili, mentre una forte riduzione o eliminazione dei flussi di risparmio esteri in eccesso nei mercati dei capitali statunitensi potrebbe aumentare il costo del capitale.
(a cura di Tiffany Wilding, economista di Pimco)