Dopo anni in cui l’Italia ha assistito sconfortata e impassibile al proprio declino, non soltanto economico ma anche culturale e sociale (a testimoniarlo ci sono tanti numeri “nudi e crudi”), l’attuale governo sta tentando di invertire la drammatica tendenza puntando a rilanciare quell’orgoglio nazionale che una certa intellighenzia per decenni ha additato come “residuo nostalgico”. La svolta, insomma, è principalmente mentale, intellettuale, motivazionale. Come in un’azienda o in una squadra di calcio.
Se Silvio Berlusconi – e prima di lui Bettino Craxi – per anni ha puntato sull’ottimismo quale chiave principale per rilanciare i consumi, con alterne fortune, il governo di Giorgia Meloni è passato da una strategia prevalentemente “psicologica” del centrodestra ad una fondamentalmente “culturale” ed “emozionale” della destra storica: alla base c’è il rilancio di una sorta di “orgoglio patrio”, che detto così potrebbe suonare come qualcosa di anacronistico o di risorgimentale, ma che invece mira a colmare proprio quel vuoto determinato da azioni demolitrici di certi valori tradizionali in cambio, sostanzialmente, di un’anarchia e di uno svilimento diffuso spacciato per libertà e per “diritti per tutti”. Il degrado, in fondo, parte più dalle persone che dai luoghi.
I primordi di questo nuovo corso politico sono emersi già con la denominazione dei ministeri, con un richiamo esplicito, ad esempio, alla fierezza per il “made in Italy” e per il valore del merito rispetto all’imperante appiattimento. Un “nuovo corso” che ha spiazzato la sinistra, tanto che molti intellettuali di area, specie dopo le catastrofi elettorali (non ultima quella delle amministrative di qualche giorno fa) si domandano oggi perché i cosiddetti “progressisti” abbiano abbandonato questi valori di base per una comunità, tra cui l’orgoglio per il proprio Paese.
La legge quadro sul “Made in Italy”, in tal senso, è un’assoluta novità, così come il liceo del “Made in Italy”, che viaggia sulla stessa strada, mentre il Parlamento sta lavorando sul riordino degli incentivi in una chiave giustamente più mirata.
Certo, la strada non sarà facile. La nuova musica spiazza quegli assetti incentrati sulle rendite di posizione, incancreniti da decenni di gestione del potere a tutti i livelli, dalle banche alle amministrazioni locali fin dentro alcuni sindacati. I soliti “poteri forti” hanno un enorme ventaglio di strumenti per condizionare ogni processo politico ed economico.
Finora Giorgia Meloni è stata brava a muoversi tra i tanti ostacoli, rinnovando la fiducia alla Nato, all’Europa e agli Stati Uniti, operando a 360 gradi, estendendo la concertazione e, insieme all’esperto ministro Tajani, a ben operare nella politica estera.
Non va, infatti, dimenticata la dipendenza – ormai anche culturale – dagli Stati Uniti, che di fatto limita la nostra sovranità, nonché il peso sempre maggiore delle interferenze dell’Unione europea che talvolta finisce con il generare frizioni al nostro interno (si pensi alle pressioni per la riforma del catasto o per le concessioni balneari, o ancora a quelle in termini ecologici che mirano alla dismissione di vecchie automobili o di apparecchiature della nostra quotidianità casalinga, l’ultima riguarda i condizionatori d’aria).
Per troppo tempo gli interessi nazionali sono stati sacrificati a causa dei vincoli (e degli interessi) geopolitici, nonché delle lobby internazionali.
Il governo è certamente più concreto dei precedenti, più motivato dalla “prima volta”, anche perché più svincolato da quei difficili equilibri tra le forze di cui ne fanno parte (com’è successo nei tanti governi tecnici, ultimo quello di Draghi, ma anche in quelle strane alchimie che hanno visto i Cinquestelle governare con destra e sinistra o addirittura estrema destra ed estrema sinistra far parte dello stesso esecutivo). Inoltre l’attuale governo ha più a cuore l’apparato produttivo del nostro Paese, il vero motore della crescita, mentre altre formazioni hanno rappresentato più gli interessi della rendita o delle categorie cosiddette intellettuali brave soprattutto a gettare fango sui “padroni”.
La concertazione allargata a tutte le parti sociali, la maggiore attenzione al taglio delle tasse e del cuneo fiscale, le spinte all’export che corrispondono all’aumento dei fatturati nonché alla crescita del numero e del valore delle aziende esportatrici (più 92,5 per cento nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno per le esportazioni in Cina) sono segnali inequivocabili che stanno portando il nostro Paese – dopo anni di inferiorità – a primeggiare nelle performance anche rispetto a Francia e Germania, che stanno invece entrando in recessione. Il Pil tedesco nel primo trimestre dell’anno è sceso dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente, il quarto trimestre del 2022 aveva fatto segnare addirittura un meno 0,5 per cento, dati entrambi peggiori delle previsioni. La Francia non va meglio.
Certo, è una condizione che non sarà eterna. Per cui è necessario rimboccarsi le maniche e lavorare.
Occorre, ora, continuare su questa strada, che fonde la concretezza con l’orgoglio per il bello e il buono che l’Italia sa offrire: bisogna sostenere la manifattura di qualità, valorizzare le produzioni enogastronomiche d’eccellenza e le competenze, incentivare la ricerca e l’adeguamento tecnologico gestendo al meglio la transizione ecologica, attrarre investimenti, monitorare quei settori su cui si giocherà la partita industriale nei prossimi anni e che impongono rilevanti investimenti per retrocedere nella competizione internazionale. E per far ciò sarà necessario sburocratizzare, ringiovanire le “stanze dei bottoni”, efficientare il sistema, lavorare ad una ristrutturazione economico-sociale complessiva che riduca le tante sacche di inefficienza e di parassitismo, che per anni sono stati i bacini elettorali di alcune forze politiche vecchie e nuove.
Il ruolo delle nostre imprese, quindi, sarà centrale.