Povera Patria (del calcio)

Giampiero Castellotti
01/07/2024
Tempo di lettura: 5 minuti
Italia2

Ogni sostantivo o aggettivo negativo potrebbe non essere sufficiente per etichettare questa Italia calcistica del tutto inconsistente. E, per noi tifosi, mentalmente irritante, disonorevole, stressante, logorante (per giunta di sabato sera).

Il bilancio di questo Europeo 2024 – perché le tre prestazioni precedenti, al di là dei risultati, non si discostano molto dalla figuraccia epocale con la Svizzera – è stato disastroso. È sembrato quasi che la maggior parte dei calciatori azzurri abbia deliberatamente risparmiato fiato, energie e gambe: prevalentemente fermi, collettivamente imbarazzanti, immensamente collezionatori di errori e orrori, costantemente senza benzina, a corto di soluzioni, di idee, di reazioni, di coraggio. Evitando di addentrarci in quel capitolo, un po’ retorico, dell’appartenenza nazionale e dell’orgoglio per la maglia azzurra barattato con una sorta di sufficienza, di disamore; è sembrato addirittura che l’atteggiamento sia stato finalizzato a rifilare un dispetto a qualcuno.

La sconfitta contro la Svizzera a Euro 2024 costituisce uno dei punti più bassi della storia del calcio italiano. Perciò fa male, in un Paese in cui l’importanza del pallone è quasi pari a quella del piatto in tavola. E fa capire come le recenti buone prestazioni internazionali dei nostri club – Atalanta in primis – sia del tutto estranea ad un calcio che di italiano ha sempre meno, dalle proprietà ai giocatori tesserati. Non a caso abbiamo il primato europeo per numero di stranieri nelle nostre squadre, come emerge da una scheda trasmessa da una trasmissione Rai.

Indubbiamente ci sono state eliminazioni della nazionale dalle competizioni internazionali che hanno fatto più male perché avvenute con squadre di rango molto minore, tipo l’uno a zero rifilatoci dalla Corea ai mondiali dell’ormai lontano 1966. Ma le fresche “forche caudine” contro gli elvetici segnano una prestazione storicamente impressionante principalmente per il “non gioco” azzurro. Una resa dal primo minuto. Una totale mancanza di reazione, tanto da subire un secondo gol a 30 secondi dal fischio d’inizio del secondo tempo, con la battuta iniziale sui piedi degli azzurri. Davvero incredibile.

Tutto ciò appare ancora più paradossale perché appena tre anni fa abbiamo trionfato proprio all’Europeo, in Inghilterra. O eravamo realmente forti allora ed oggi non più (davvero strano), oppure allora è stata una casualità, ma arrivare in fondo non è mai una causalità, seppure la fortuna ha la sua parte. Per cui le rituali e abusate critiche del momento – la scarsa attenzione ai vivai calcistici, i pochi italiani nelle squadre di serie A, il calcio-business che ha annullato orgoglio e cuore, ecc. – giustificano solo in parte la bruttissima figura internazionale.

In una globalizzazione che ormai investe anche il mondo del calcio, l’Italia durevole stella del calcio è un ricordo sempre più sbiadito rispetto a tante “nuove” nazioni che ormai insidiano il vertice del pallone. Le nostre vittorie mondiali tra il 1982 e il 2006 hanno costituito l’apice di un lungo periodo d’oro partito con il trionfo all’Europeo del 1968 con il due a zero contro la Jugoslavia (con i gol di Riva e Anastasi, altra epoca anche di risorse umane in pantaloncini) e che ha visto, per quanto riguarda i mondiali, il secondo posto nel 1970 cedendo in finale al Brasile di Pelè, il quarto posto del 1978, il terzo nel 1990, il secondo nel 1994, mentre agli Europei abbiamo conquistato due secondi posti nel 2000 e nel 2012. Insomma, un bilancio più che onorevole.

Ma la musica è cambiata. Le mancate qualificazioni alla fase finale dei mondiali del 2018 e 2022, rispettivamente contro le modeste Svezia e la Macedonia del Nord, hanno confermato l’appannamento di un ciclo. A che è dovuto? Non è facile dare una risposta che incarni una verità assoluta. Forse anche alla globalizzazione, in quanto l’Italia ha perso le sue endemiche caratteristiche tostamente “operaie” – si pensi a giocatori come Gentile, Scirea o Gattuso – ed oggi il materiale umano a disposizione, oltre che di livello meno prezioso, spesso rappresenta la brutta copia di quanto avviene all’estero. Scimmiottiamo, malissimo, moduli, posture, look. Siamo passati da Paolo Rossi, Roberto Baggio, Alessandro De Piero al variopinto Gianluca Scamacca, che sarà pure forte ma all’Europeo è stato un’entità incorporea, per giunta irritante. Poter salvare solo qualche giocatore – che non a caso gioca all’estero – da questo recente disastro è indicativo di come l’intero movimento del calcio italiano sia agonizzante. E, come si dice in questi casi, da rifondare totalmente. Responsabilità? Oltre ai giocatori, emblemi del disfattismo, non si può lasciare fuori dai processi il direttore d’orchestra Spalletti e il promoter Gravina.

C’è una curiosità: la squadra italiana all’Europeo era piena di romani o di gente che gioca a Roma da anni. Almeno otto giocatori. Nulla contro la Capitale, ma i maggiori campioni azzurri sono venuti quasi sempre dalla provincia. Così come i campioni di tanti altri sport. Perché è soprattutto lì che si conosce bene, per emergere, il valore del sacrificio, cioè quella virtù primaria che non s’è assolutamente vista in Germania. Più che pretendere la Playstation nelle proprie camere, i nostri “campioni” avrebbero potuto passare il tempo libero frequentando i tanti italiani che lavorano o hanno lavorato in Germania: questi la parola “sacrificio” la conoscono bene sulla propria pelle, lontani migliaia di chilometri dai propri affetti.

Giampiero Castellotti