Mediterraneo, patrimonio di culture

Giampiero Castellotti
11/11/2022
Tempo di lettura: 7 minuti

Nel Mediterraneo, crocevia di popoli già nella denominazione di “mare di mezzo”, tra l’altro comune a molte lingue, convivono due fenomeni legati alle peregrinazioni.

Uno è quello che possiamo definire statico, per quanto oggetto di continue stratificazioni e aggregazioni: è costituito dalle preziose tracce, disseminate dappertutto, della storia e della cultura millenarie. Orme prodotte dai costanti transiti di genti che si sono succeduti sulle acque e sulle coste del Mare Nostrum. Non a caso ancora oggi qui si registra il 20 per cento del traffico marittimo mondiale.

Il secondo, quello dinamico, è rappresentato dallo spazio comune di operoso contatto tra nord e sud del mondo: è oggetto di attenzioni quotidiane suscitate dalle attuali cronache – spesso drammatiche – generate dalle migrazioni.

I due piani, sedimentati e irreversibili, dovrebbero convivere armonicamente. Invece, purtroppo, una latitante consapevolezza – spesso dolosa – dell’aspetto statico (con il suo scrigno di saperi) a fronte dei differenti approcci ideologici verso quello dinamico comportano che tale territorio marino venga oggi colto più come un problema che non come un’opportunità.

Eppure le popolazioni esposte su questo specchio d’acqua collettivo, pur nelle loro differenze storiche, culturali e religiose, godono di una radicata base di storia comune.

Al di là della retorica, tra chi si affaccia sul Mediterraneo c’è la condivisione di una civiltà che ha generato un patrimonio interconnesso sul fronte della matematica, della letteratura, del pensiero filosofico, dell’arte, della musica, dell’innovazione tecnologica, delle attività agricole, delle pratiche ittiche e degli spostamenti in mare. La crescita collettiva – lo dovremmo avere imparato – è conseguenza di scambi, contaminazioni, accettazione e affinamento delle reciproche esperienze. L’Europa è culla di contemplazione filosofica, spiritualità religiosa, pensiero scientifico che nasce qui, in questa sorta di “grande lago”.

Gli indizi della civiltà fenicia a cui si deve l’invenzione dell’alfabeto moderno e il tracciamento di alcune “strade marine” del commercio, le testimonianze della cultura greca disseminate in tutta l’area mediterranea, le tracce dell’impero romano in Nord Africa, il ruolo di Alessandria d’Egitto nella valorizzazione dei filosofi greci ancora oggi alla base del nostro pensiero, gli ebrei erranti con la loro profonda spiritualità, le invenzioni arabe che hanno contribuito a far evolvere scienze e matematica, il ruolo dei bizantini nella valorizzazione dei testi fondanti l’identità culturale europea sono soltanto alcune “fotografie” di questa realtà. Un patrimonio reso emblematico dai 400 siti dell’Unesco e da un terzo del turismo mondiale.

Certo, tutto ciò è testimonianza di un passato remoto, per quanto quei semi abbiano dato frutti tuttora visibili. Ma è stato principalmente l’irrompere della società industriale, con i suoi sbilanciamenti e le sue contraddizioni, a sconvolgere certi radicati equilibri nel Mare Nostrum: il colonialismo ha soffocato e depredato il continente africano, la pastorizia è stata sfrattata dalle sue millenarie “autostrade verdi” di transito di greggi e mandrie, le tradizionali tecniche agricole sono diventate improvvisamente anacronistiche.

Lo “spazio mediterraneo” si è allora profondamente trasformato. La decolonizzazione, i conflitti bellici, le fratture ideologiche e confessionali hanno ridisegnato il quadro geografico e politico, pur salvaguardando all’area una centralità internazionale: soltanto ricordando le vicende più recenti, si pensi agli interventi militari occidentali in Iraq, in Afganistan e in Libia, all’eterno antagonismo israelo-palestinese, alle “primavere arabe”, alla guerra in Siria, alla stagione di Daesh. Tutto ciò ha sconvolto società ed economie, alimentando ulteriormente le diaspore dei popoli.

Precedentemente le profonde trasformazioni sociali che hanno avuto inizio nel XIX secolo hanno investito anche la sponda nord del mare. Per i popoli del Mediterraneo settentrionale – italiani, turchi, greci, spagnoli – l’unica soluzione per la sussistenza sono state le valigie e l’emigrazione oltreoceano tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quindi nel Nord Europa dopo la seconda guerra mondiale. Gran parte dei successi dell’industrializzazione nell’occidente si deve proprio a questi “migranti”.

Fenomeni di epoche differenti ma, in fondo, analoghi tra loro. Il Mediterraneo è luogo di partenze e di approdi. Esodi non dissimili da quelli attuali che spingono flussi di disperazione dall’Africa verso l’Europa. Migrazioni che hanno assunto una natura strutturale e di lungo periodo. Le previsioni, in termini di entità di spostamenti, delineano un quadro preoccupante per i prossimi anni: l’enorme crescita demografica nel continente africano (sono previsti due miliardi e mezzo di abitanti nel 2050), la crisi climatica che sta accentuando desertificazione e penuria idrica, gli scompensi economici e sociali, l’insicurezza alimentare rafforzeranno i fenomeni. E anziché registrare, come risposta, l’intensificazione degli investimenti e degli scambi commerciali, la promozione dei diritti, la lotta serrata alla radicalizzazione, al terrorismo, ai trafficanti di esseri umani, il continente africano assiste ai nuovi colonialismi del XXI secolo, di matrice principalmente cinese e russa, che stanno ulteriormente peggiorando tale condizione, alimentando le disuguaglianze e il disagio sociale di popolazioni spogliate di ogni ricchezza naturale.

L’Europa politica ed economica, in cui spesso prevale purtroppo l’unione monetaria e la dimensione burocratico-normativa, sulla questione migratoria continua ad essere preda delle divisioni, dei miopi interessi, degli egoismi, delle strategie elettorali nelle singole nazioni. I palazzi di Bruxelles sono di frequente sfuggenti di fronte ai continui sbarchi. E palesano la mancanza di una strategia d’insieme degli Stati membri: è evidente la frattura tra esigenze di sicurezza e slanci di solidarietà.

Le sponde del Mediterraneo, benché geograficamente vicine e culturalmente affini, restano decisamente distanti proprio sui piani politico ed economico. Lì dove ci sono state e continuano ad esserci proficue connessioni, anche grazie al trasporto marittimo di linea, si verificano nel contempo radicali chiusure.

Si tratta di processi che non possono essere utopicamente arrestati: non a caso l’apparato normativo per regolamentare i flussi migratori è inconsistente e quasi sempre inefficace. Semmai i processi vanno regolati.

L’immigrazione continua ad essere vista unicamente come un problema dei Paesi comunitari che si affacciano sulla sponda settentrionale del Mediterraneo e ogni tentativo di condivisione cade nel vuoto. È chiara l’assenza di volontà nell’affrontare collettivamente i nodi di questo secolare processo egoisticamente delegato ai Paesi maggiormente esposti al fenomeno per ragioni geografiche. Così un esodo si trasforma in costante emergenza. E il Vecchio Continente si dimostra non all’altezza della sua tradizione di civiltà – salvo eccezioni – che lo ha caratterizzato nei secoli: dovrebbe alimentarsi proprio della sua identità storica e culturale. L’Europa deve riprendere coscienza che il suo futuro è scritto nel Mediterraneo, che qui è in atto una sua missione storica, luogo di visioni e di decisioni strategiche per il futuro. Aldo Moro aveva profetizzato: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”.

Il “sogno europeo” resta quello dell’estensione dei diritti e della salvaguardia della libertà e della democrazia. È per questo che il nostro continente è l’approdo agognato da coloro che fuggono dalle guerre o dalle persecuzioni etniche e religiose, ma anche dai soprusi e dalle carestie. L’Europa della tradizione ebraica, cristiana, greco-latina, arabo-islamica, deve assumere questi valori per governare le sfide anziché subirle: se il terrorismo cerca di annientare questa peculiarità simbolica del Mediterraneo, è proprio il rilancio dello spazio culturale e spirituale, di inclusione e di connessione, a rilanciare la convivenza e a ricostruire un’identità condivisa e dialogante nei Paesi del Mediterraneo.

Invece, proprio da noi è assente principalmente la consapevolezza che la nostra identità è il frutto di secoli di integrazioni. Gli accordi con i Paesi nordafricani, spesso caratterizzati da regimi autoritari, mirano a demandare la questione, a contrastare i flussi con barcate di miliardi di euro e con la violenza, finendo con l’accentuare le sofferenze a causa delle tappe di un transito delle diaspore costellato di luoghi di vera e propria detenzione. I patimenti subiti da centinaia di migliaia di persone sono attenuati unicamente dall’impegno del volontariato internazionale che, oltre a denunciare questa condizione, supporta i migranti negli sbarchi e nell’integrazione attraverso la mediazione culturale, l’orientamento o la fornitura di generi di prima necessità.

Finché non si restituirà al cosiddetto “terzo mondo” la sua dignità – e le responsabilità europee non sono poche – anche attraverso progetti condivisi di sviluppo, il Mediterraneo, entità sovranazionale, continuerà ad essere un orizzonte di sofferenze, di tensioni e di drammi: i circa trentamila morti generati negli ultimi anni dal movimento migratorio costituiscono un’infamia. Quel mare, che gli europei vivono come scenario di vacanza e di divertimento, di spiagge cristalline e di immersioni, per troppi africani è stato – e purtroppo sarà – un enorme cimitero d’acqua. Il mondo civile non può rimanere insensibile a questo dramma.

Giampiero Castellotti