
Ci voleva un giovane professore romano che insegna filosofia politica presso l’Università della Valle d’Aosta, Alessandro Dividus, per riaccendere l’attenzione verso il filosofo gallese Henry Jones (1852-1922), esponente di quella corrente filosofica nota come idealismo britannico, predominante nel Regno Unito a cavallo tra Ottocento e Novecento.
In sintesi, il filosofo di Llangernyw, Galles settentrionale, presenta una visione spirituale del mondo e conciliante tra scienza e religione, interpretando quest’ultima alla luce della sua funzione sociale.
I due strumenti, secondo Jones, non sono dissociati, ma congiuntamente efficaci per esplorare la natura unica della realtà. Sono, inoltre, accomunati dal dubbio di base, stimolo iniziale per la ricerca e la conoscenza. Insomma, Jones supera l’evoluzionismo di Darwin – L’origine della specie è del 1859 – che aveva accentuato il contrasto tra i due elementi, provvedendo alla loro riunificazione.
Con The Spiritual Structure of Society. L’organicismo sociale nel pensiero di Sir Henry Jones (Edizioni ETS, 25 euro), titolo che ben riassume una dottrina che, hegelianamente, si espande dalla natura allo Stato, Dividus, come scrive nell’introduzione del libro, mira “a riportare alla luce il pensiero di un autore studiato in maniera molto marginale sia nell’ambito accademico anglosassone sia nel contesto accademico italiano”.

In effetti non esiste, ad oggi, alcuno studio dedicato interamente alla figura di Jones, salvo una monografia di David Boucher e Andrew Vincent, A radical hegelian. The political and social philosophy of Henry Jones, datata 1993. La stessa Treccani gli riserva poche righe, elencando quattro sue opere e ricordando, appunto, che è stato uno dei rappresentanti dell’idealismo critico inglese e che, dal 1894, ha insegnato filosofia morale nell’università di Glasgow. Niente altro.
Perché, allora, gettare luce su un filosofo oscurato dalla critica novecentesca, sia in quanto appartenente ad una corrente già di per sé marginale sia perché relegato nelle seconde linee in particolare da Rudolf Metz, autore di un resoconto dettagliato sullo sviluppo della filosofia britannica (A hundred years of british philosophy, 1938), il quale ne etichetta il pensiero, un po’ superficialmente, alla stregua di “una forma di idealismo hegeliano ereditata dal suo maestro e amico Edward Caird e, in grandi linee, riadattata e sviluppata senza particolari mutamenti”?
La risposta sta, forse, proprio nell’ingenerosità delle critiche in quanto, come rileva Dividus, Jones è “intrinsecamente fondamentale per interpretare non solo molte delle idee principali dell’idealismo britannico, bensì anche alcuni dei passaggi essenziali avvenuti nella vita politica e sociale della Gran Bretagna all’alba del XX secolo”. Ma anche, aggiungiamo noi, perché l’autore ci ha lasciato un patrimonio di riflessioni oggi quanto mai attuale.
Le origini umili
La biografia del filosofo, dettagliatamente ricostruita dall’autore del volume, racconta di uno studioso “che si è fatto da solo”, come si direbbe oggi. Cresciuto in una famiglia molto umile – padre calzolaio e madre lavoratrice domestica – Jones è riuscito a studiare grazie a molteplici fattori: il supporto economico di una vicina di casa, Alexander Roxburgh, l’ottenimento di diverse borse di studio, la voglia di migliorarsi – anche nel confronto con gli altri studenti provenienti da famiglie agiate – nonché il lavoro di aiutante calzolaio del padre. La crescita professionale è stata anche determinata dal riconoscimento di doti intellettuali non comuni da parte di molteplici suoi professori, che gli hanno sempre assicurato fiducia e lo hanno spinto a raggiungere nuovi traguardi. Tra questi, Wallace, Thompson, Nichol e soprattutto Edward Caird, che gli diventerà amico e gli lascerà la cattedra universitaria a Glasgow.

È proprio Caird, che si muoveva tra le conoscenze della filosofia kantiana, le speculazioni di Comte e le tesi dell’evoluzionismo di Darwin ed Hegel, a tracciare la strada dottrinale, con ascendenze hegeliane, a Jones, che, però, ne tenta un superamento.
Le note biografiche sono importanti per attestare come le umili origini non gli abbiamo prodotto un senso rancoroso di riscatto e di livore verso i concittadini, semmai la presa di coscienza dell’importanza della solidarietà in ambito sociale.
Il prestigio della morale
Il libro approfondisce un tema centrale per il pensatore, cioè la struttura spirituale dell’uomo. Secondo il filosofo gallese, l’essere umano nella sua prima fase parte dal bisogno di sopravvivenza e non è consapevole di sé stesso: in questa condizione iniziale si strutturano usi e costumi.
Nella fase successiva di maturazione, cambiando il paradigma, il pensiero dell’uomo si rivolge invece verso sé stesso, divenendo quindi riflessivo: la coscienza si trasforma in autocoscienza, superando pertanto l’istinto, e subentra una tensione verso l’universale. È il momento in cui la volontà costituisce l’impulso per progredire nella conoscenza; il mondo, cioè la realtà esterna all’uomo, soddisfa le sue aspirazioni.
Decisivo, in questa crescita, il ruolo della morale: ogni bene è individuale e nel contempo universale, per cui ogni questione morale è allo stesso tempo questione sociale. Non a caso l’esito positivo di ogni azione corretta facilita un percorso di moralizzazione dell’umanità attraverso un invito alla riflessione, alla persuasione e alla condivisione cosciente di un unico destino umano.
Jones, in sostanza, riesce a nebulizzare il male all’interno del valore del bene: è necessario comprendere il male per apprezzare la virtù del bene.
Del resto è l’idealismo britannico nel suo complesso a vedere il bene come il motore del mondo, incarnato nelle istituzioni etiche quali la famiglia, la chiesa, lo Stato, il tessuto produttivo.

Dividus, a questo punto, offre un originale parallelismo tra Jones e Giuseppe Mazzini, accomunandoli nell’idea che essere cittadini corrisponda alla continua ricerca di norme morali condivise. Possiamo azzardare indicandoli come antesignani della moderna “cittadinanza attiva”, fatta anche di doveri e di “sacrifici”, rifiutando però quella forza brutale insita nelle rivoluzioni violente, che infatti entrambi rifiutano, insieme all’ateismo e al nichilismo.
In sostanza, la visione dei due s’incontra nella visione della sovrapposizione tra benessere individuale e collettivo, con “l’individuo che completa sé stesso nel mondo”. La società, determinando obblighi reciprochi, finisce per aiutare l’uomo svantaggiato. La sintesi è: o si coopera o si collide.
Morale e politica
Nella riflessione sulla morale s’inserisce il valore della libertà, che si manifesta nella vita in comune: non è una caratteristica innata nella natura umana, ma, appunto, una categoria della politica.
Il concetto di libertà, “ridimensionato” quindi, influenza la visione della politica: il benessere da perseguire deve essere innanzitutto spirituale, prevalendo la critica alle derive individualistiche e materialistiche della società.
Per Jones, in linea con gli altri esponenti dell’idealismo britannico, la morale è la questione principale della politica. Ogni sforzo finalizzato al mutamento delle condizioni sociali è vano senza un rinnovamento morale dell’uomo. In questo contesto il messaggio religioso assume una funzione sociale.
Ancora una volta emerge la modernità del suo pensiero, tenendo conto delle novecentesche encicliche sociali dei Papi fino al pontificato di Francesco, estremamente critico verso le politiche neoliberiste del laissez faire, particolarmente attento ai diritti delle famiglie, dei lavoratori, degli ultimi.
Jones rilancia proprio la speranza. La sua opera The working faith of the social reformer and other essays del 1910, come sottolinea Dividus, è “un’espressa dichiarazione di fede nei confronti dell’uomo e della sua capacità di combattere i mali che affliggono le società, facendo leva esclusivamente sulla volontà buona degli individui i quali, soli, sono in grado di riattivare quelle energie sociali capaci di ricreare una rete di relazioni e un senso di cittadinanza ormai sempre più relegato alla sfera dei rapporti materiali ed economici”.

Proprio qui s’inserisce il tema della cittadinanza (opera: The principles of citizenship del 1919), in cui si valorizza il ruolo dell’uomo solidale, libero, attento al bene comune. Ma è necessaria una vera e propria educazione alla cittadinanza.
Per il filosofo, la civiltà è un’organizzazione in continuo mutamento e la sua forma più sviluppata è lo Stato, visto come una sorta di “agente morale” con metodi educativi quali la persuasione e la proibizione, ma mai la forza e la coercizione. L’aumento delle complessità sociali e dei comandi positivi (che diventano ideali) è indicatore della sua evoluzione.
Jones, come Hegel, ma anche seguendo il modello aristotelico, vede pertanto due architetture sociali che debbono coesistere: materiale e spirituale. Lo Stato è la comunità che persegue il bene del cittadino, il quale deve assicurare la massima partecipazione alla vita pubblica.
Sono tematiche quanto mai attuali, specie in una società sempre più secolarizzata, dove la dimensione spirituale ha ceduto il passo al consumo compulsivo e/o, peggio, all’analfabetismo di ritorno, agli alfieri del complottismo e del negazionismo, alla vuota irrazionalità unita alla tecnofobia.
Jones offre una percezione ideale decisamente originale. Non è né un liberista classico né un socialista radicale o un marxista: del liberismo, “catalizzatore delle particolarità”, salvaguarda sostanzialmente l’indipendenza razionale del cittadino e la proprietà privata, prediligendo però quella spirituale rispetto a quella materiale e indicando il valore di quest’ultima anche nell’obbligazione sociale; del socialismo, pur criticando la natura oligarchica dello Stato e l’avversione alla proprietà privata, fa suoi i valori della comunanza e della solidarietà. Quindi non rigetta in toto queste ideologie, semmai le rielabora in chiave etico-religiosa, sovrapponendo alcuni elementi comuni tra liberalismo, socialismo ed etica cristiana e armonizzando le istanze individuali e sociali. Inoltre auspica il superamento della suddivisione in classi sociali.

Del resto, Jones è figlio dei suoi tempi e del suo ambiente, vivendo i mutamenti sociali del Regno Unito con la crisi del laissez-faire di Adam Smith e David Ricardo e la maturazione del socialismo che finisce per influenzare anche il liberalismo, ad esempio quello di Mill, Hobhouse, Hobson e del suo amico David Lloyd George. E con Green, il Nostro condivide la convinzione che la gamma dei diritti e dei doveri dell’uomo corrisponda alla loro moralità, che i diritti siano individuali soltanto nella misura in cui essi siano riconosciuti socialmente.
Centrale anche l’aspirazione alla democrazia, “contenitore delle differenze”: è il luogo dove avviene l’accordo sulle norme collettive; dove si crea una coscienza collettiva; dove si rafforza il senso di appartenenza alla collettività; dove le individualità imparano a conoscersi; dove emancipazione ed educazione devono evolvere simultaneamente; dove, soprattutto, non ci si deve limitare a ratificare le decisioni della maggioranza, ma a comprendere le volontà individuali di cittadini virtuosi che dovrebbero essere tutti orientati al bene comune.
Anche in questo caso, la democrazia non è soltanto un ordinamento politico, ma “un atteggiamento dello spirito”.
L’amore per la poesia
L’amore di Jones per la poesia apre un’altra finestra su questo pensatore. Secondo Jones, rispetto a scienza e filosofia, la poesia possiede la spontaneità. E vede, di conseguenza, nei poeti Thomas Carlyle eRobert Browning la capacità di “portare in superficie la profondità dell’animo umano e di svelare il principio che lo unisce all’universo circostante”, benché colga nelle ascendenze kantiane il limite di Carlyle, capace di “svelare solo mezza verità, cioè che la vita spirituale di ognuno è la condizione necessaria per la salvezza di tutti, ma non notando la complementarietà di tale affermazione, cioè la grandezza degli individui sui quali tale responsabilità è riposta”. Più lusinghiero il giudizio su Browning, grazie in particolare all’ottimismo espresso dal poeta vittoriano, radicato all’interno della sua visione morale della vita. Jones condivide ciò, sottoscrivendo la convinzione che ogni azione umana sia orientata verso il bene e che la fede non vada provata ma soltanto creduta. L’ottimismo del filosofo gallese è la consapevolezza della necessità del male come condizione per il raggiungimento di un bene superiore: attraverso il peccato l’uomo riscopre il bene.
Il superamento di Darwin

Il libro di Dividus affronta anche il rapporto di Jones con la teoria evoluzionistica di Charles Darwin (“nella lotta per l’esistenza prevalgono le specie che sono in grado di coniugare la loro forza – non necessariamente fisica – e organizzazione con la condizione dell’ambiente circostante”) e in particolare le critiche del filosofo gallese a Huxley, Spencer e Tyndall, i tre esponenti principali dell’X Club, il circolo gastronomico londinese (1864-1893) dove si sostenevano le teorie della selezione naturale e del liberalismo accademico anglicano.
L’evoluzione è guidata dalla connessione tra la ragione dinamica e quella statica, laddove la tradizione, cioè la ripetizione di determinati comportamenti, è come “una banca depositaria di tutto ciò che l’uomo ha compiuto verso una più completa realizzazione di sé”. Quindi tradizione e ragione si compenetrano.
Ben venga, quindi un ritorno di interesse per questo fine pensatore ottocentesco, e più complessivamente per l’idealismo in genere e quello di matrice britannica in particolare. Specie nell’era contemporanea dove l’Occidente soffre da tempo della crisi dei rapporti tra Stati, partiti, istituzioni di rappresentanza e di mediazione e cittadini, nonché del preoccupante declino delle democrazie conseguente anche alla cosiddetta tecnocrazia. Per contrastare l’inflazione contemporanea di slogan e banalità, tornare a leggere buona filosofia può essere un’assennata opzione.