
Milano e Roma hanno fagocitato le radici geografiche – e spesso culturali – dei più grandi letterati italiani del Novecento. Nel migliore dei casi hanno fornito loro plurime identità.
Il veneto Buzzati, il ligure Montale, il toscano Ungaretti, il siciliano Vittorini sono tutti scomparsi a Milano, loro città d’adozione. Il lombardo Gadda, il molisano Jovine e l’emiliano-friulano Pasolini a Roma.
Le grandi città hanno spesso oscurato le produzioni “provinciali” di questi autori. Si pensi all’adozione del dialetto romanesco nei principali romanzi di Pasolini, che pure ha scritto poesie intense sulla materna Casarsa, ambiente friulano che «non fa che violentare i sensi», come la celebrava il poeta ucciso ad Ostia. Mentre il capolavoro di Gadda, quel pasticciaccio, è ambientato nella capitolina via Merulana, malgrado certa critica si sforzi ad individuarne «un risentimento satirico e realistico da far risalire a Parini e Porta, una severità morale di ascendenza manzoniana, una tensione stilistica che richiamava quella Scapigliatura che, com’è noto, è fenomeno essenzialmente lombardo», come ha evidenziato Raffaele Donnarumma, che ne riconosce però una certa forzatura.
Altri due immensi scrittori piemontesi “della provincia”, come Fenoglio e Pavese, sono scomparsi giovanissimi a Torino, benché i loro principali romanzi – Il partigiano Johnny e La luna e i falò – siano ambientati proprio nella provincia piemontese, che ne assicura un’efficace scenografia.
Nonostante non sempre siano riconosciute dagli stessi autori e raramente evidenziate dalla critica, le “plurime identità” hanno comunque contribuito ad arricchire e a rendere rilevanti le produzioni dei principali intellettuali del secolo scorso. Anche perché, in un mondo ancora scarsamente omologato, le disarmonie tra città e provincia hanno valorizzato la sensibilità letteraria degli scrittori novecenteschi.
Certo, la residenza in grandi città garantisce da sempre le frequentazioni e le opportunità decisive per la fama. Talvolta, però, finisce per rendere complicate le relazioni con le radici. Del resto, la locuzione nemo propheta in patria è ineclissabile.

Un esempio significativo e funzionale di questa potenziale “dissonanza” viene da uno dei più rilevanti intellettuali del Novecento, Umberto Eco.
Nato ad Alessandria, dove ha conseguito la maturità classica, laureatosi a Torino in filosofia (nota la sua sarcastica frase: «Si può dire che Tommaso d’Aquino mi abbia miracolosamente curato dalla fede», essendo diventato ateo all’università dopo essere stato dirigente dell’Azione cattolica), docente universitario di semiotica a Bologna (dopo Torino, Milano e Firenze), con il buen retiro a Monte Cerignone, nelle Alte Marche, con una casa ricavata in un ex convento, è scomparso all’età di 84 anni, nel 2016, a Milano.
Lo stesso scrittore alessandrino, componendo una sorta di proprio necrologio in vita, pubblicato per la prima volta dal Sole 24 Ore, ha scritto: «Nato ad Alessandria, città sorta nei primi del nostro millennio, per far dispetto al Sacro Romano Impero, vivente a Milano, gotica per arte oltre che per smog, docente a Bologna, dove i primi clerici vagantes istituirono la prima università quando a Oxford e alla Sorbona si pascolavano ancora i cinghiali».
Nell’ennesima “plurima identità”, il legame di Eco con le radici quindi non è stato mai reciso. Visibile già nell’ostentazione di quel cappello Borsalino, simbolo di Alessandria, abbinato all’immancabile sciarpa rossa, gli ennesimi due segni – lui semiologo – da far decifrare al mondo.

Il rapporto con la propria città, tuttavia, è stato sempre contrastato. Persino dopo la morte dello scrittore. Ma, in fondo, con tanta indulgenza da entrambe le parti. Perché se Umberto Eco ha assorbito dal suo luogo natale proprio quel gusto dell’ironia e della goliardia che lo accompagnerà per tutta la vita, rodato già negli spettacoli teatrali messi in scena da adolescente proprio ad Alessandria, a criticarlo istintivamente – quando non ci si è messa di mezzo l’ideologia – sono stati i suoi concittadini più permalosi.
Il giornalista Brunello Vescovi, che nel 2023 gli ha dedicato il podcast EcoSentieri, esplorando la sua vita e il suo mondo, ha ricordato: «Un leader naturale nella sua classe al liceo classico Giovanni Plana di Alessandria (ha frequentato la sezione A), questo era l’Umberto Eco sbarazzino che irrideva simpaticamente i professori scrivendo storielle goliardiche, proponendo esilaranti imitazioni dei docenti, come la professoressa Amalia Coppa Patrini. E firmava pure – salendo anche sul palco come attore – spettacoli di rivista alla maniera di Garinei e Giovannini. Con titoli come Non ho voglia di studiare, Scappiamo che arriva Annibale (dove il protagonista non era il cartaginese, ma il preside Annibale Molignoni) o Viva via Venezia, la strada dove ad Alessandria si trovava il manicomio».
Altro che secchione inabissato nei libri. Un provocatore nato. Vescovi cita Mario Garavelli, divenuto poi magistrato, che conserva ancora un ricco archivio di vignette di Eco, che vanno dall’ironica reinterpretazione di eventi storici come il Congresso di Vienna a figure dell’antichità classica o semplicemente caricature di compagni e docenti.
Gli amici hanno anche raccontato, più volte, le sue doti di barzellettiere, sostenute dal buon cibo e dall’ottimo vino.

La frizione iniziale tra la terra natale e il suo figlio più illustre è comunemente indicata in un celebre articolo pubblicato da Eco il 19 febbraio 1967 sul settimanale L’Espresso, intitolato “Pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro”. Scritto con quello spirito un po’ indisponente e agitatore, non tollerato o non compreso da tutti, che puoi permetterti con una realtà che senti tua e per la quale provi comunque affetto.
Lo spunto è stato offerto ad Eco dal volume La storia degli Alessandrini scritto da Fausto Bima in vista delle celebrazioni per gli 800 anni di Alessandria e segnalato dal libraio Cesarino Fissore, che aveva commissionato il libro.
Il figlio illustre ha scritto di Alessandria: «Sfiducia nel mistero. Diffidenza per il Noumeno. Una città senza ideali e senza passioni. Nell’epoca in cui il nepotismo era una virtù, Pio V, papa alessandrino, caccia i parenti da Roma e dice che si arrangino. Gli alessandrini non si sono mai entusiasmati per nessuna Virtù Eroica … non ha mai avuto nulla da insegnare alle genti, nulla per cui debbano andar fieri i suoi figli, dei quali essa non si è mai preoccupata di andar fiera …».
Trentatré anni dopo, però, a vent’anni dalla pubblicazione del romanzo Il nome della rosa, che con «il magico intreccio di medioevo e feuilleton», come ha scritto Mariarosa Mancuso, ha venduto oltre 60 milioni di copie consacrando definitivamente l’intellettuale a livello planetario, Eco ha sfoderato uno dei più concreti e significativi omaggi alla sua città natale: le oltre 500 pagine del romanzo picaresco e storico Baudolino, il santo patrono di Alessandria, ambientato proprio in quell’area del basso Piemonte (“Fraschetta”) dove sorgerà la città piemontese, oggi il comune più esteso della regione. È stato il quarto romanzo dello scrittore, successivo anche a Il pendolo di Foucault (1988) e L’isola del giorno prima (1994).

Si tratta dell’ennesimo affresco storico, diffuso a livello internazionale, che ha ricevuto un buon successo di critica e di pubblico, benché la travolgente fortuna dei precedenti non sia stata più eguagliabta.
Eco ha confermato l’approccio scientifico delle fonti anche nei confronti della sua città, padroneggiando il saggio più innovativo scritto sulle origini di Alessandria, quello del professor Geo Pistarino, presentato nel 1968 al XXXIII congresso storico subalpino in occasione degli ottocento anni della città, poi pubblicato sulla rivista Studi Medievali.
Baudolino, il protagonista del libro, è un giovanissimo contadino chimerico e affabulatore che conquista Federico Barbarossa, diventandone figlio adottivo nel 1154. In un capitolo Baudolino salva Alessandria con la vacca di suo padre.
François Busnel su L’Express ha lodato l’autore per la «pantagruelica erudizione», confermandolo come «il romanziere di genio» e «il maestro più incomparabile del thriller storico».
Già nel 1989, con la Fisac-Cgil (il sindacato dei lavoratori delle assicurazioni e del credito), Eco aveva pubblicato Il miracolo di S. Baudolino, dove era riaffiorata l’ironia sull’antropologia alessandrina, per l’occasione condita con la sacralità popolare.

Anche nel suo ultimo romanzo, Numero Zero, pubblicato nel 2015 da Bompiani e ambientato a Milano, Eco ha fatto riferimento alla sua città, citando il bisettimanale Il Popolo di Alessandria, pubblicato nel corso dell’ultima guerra mondiale, con un’edizione anche per la Lombardia. Ne era direttore Gian Gaetano Cabella, l’autore dell’ultima intervista concessa da Mussolini prima di morire e dal duce stesso corretta nella sua redazione definitiva, trasformandola in una sorta di testamento.
Non sono mancati, nei libri di Eco, personaggi costruiti sulle compagnie scolastiche e dell’infanzia alessandrina.
Per ammissione degli stessi amici dello scrittore, nel romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana del 2004, ci sono dentro il fisarmonicista jazz Gianni Coscia (che nel 2021 ha inciso il disco La misteriosa musica della Regina Loana, ispirato al romanzo di Umberto Eco), il medico Beppe Lai e il magistrato Mario Garavelli, tutti alessandrini. Nonché Lilli, una ragazza di 16 anni di cui il giovane Umberto era innamorato: come lui, anche il protagonista del romanzo, Yambo, si dimostra impacciato nel trasporto tutto platonico. Lilli è diventata non soltanto Lila nel romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana, ma anche Lilia nell’Isola del giorno prima, implorata con intensità dal protagonista Roberto.
Anche la tromba presente nel Pendolo di Foucault ha un richiamo piemontese nella banda dell’oratorio dei salesiani a Nizza Monferrato (nel 2010 lo scrittore ne ha avuto la cittadinanza onoraria), dove Eco dodicenne era sfollato in tempo di guerra. Il personaggio di Jacopo Belbo porta nel cognome il riferimento al torrente che attraversa Nizza. Mentre nel romanzo Il nome della Rosa ha inserito il teologo francescano Ubertino da Casale Monferrato.
Per quanto controverso, il legame tra il semiologo, filosofo e prolifico scrittore di fama internazionale con la sua città si conferma quindi incontrovertibile.

A darne conferma è stato lo stesso Eco nella sua autobiografia intellettuale inclusa nella Library of Living Philosophers, unico italiano della serie, tra Albert Einstein, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre e altri (pubblicata in Italia nel 2021 da La Nave di Teseo nella collana “I fari”).
Lo studioso interdisciplinare piemontese ha ricostruito il contributo di Alessandria alla sua formazione. Citando, in particolare, Giancarlo Lunati e Delmo Maestri (a cui ha dedicato un discorso alle esequie), colleghi studenti più anziani di lui del liceo “Plana”, che hanno condizionato decisamente il suo percorso.
È sempre emersa un’indulgente nostalgia verso quegli anni giovanili, l’affetto per quell’ambiente di “apprendistato”, pur nella bonaria consapevolezza dei suoi limiti.
«Eco rimpiangeva un mondo a misura d’uomo, con la dìvota cumedìa di Gelindo in dialetto, il liceo Plana e piazza Genova, la nebbia, il mosaico di Severini che da bambino lo faceva sognare – scrive Alberto Ballerino sul Piccolo, testata alessandrina con un secolo esatto di vita.
Proprio in occasione degli ottant’anni del Piccolo, nel 2005, Eco ha commemorato il giornale cittadino definendolo, con il rituale affabile umorismo, «il New York Times di Alessandria». E ha ricordato il Gelindo alessandrino, dove assisteva agli spettacoli sulle spalle del padre, in una delle sue celebri “Bustine di Minerva” sul settimanale L’Espresso, affrontando la crisi della cultura dialettale. Del teatro San Francesco ha scritto: «è il Broadway».

La dibattuta relazione tra il semiologo e la sua città è stata oggetto anche di diverse pubblicazioni. Come quella di Riccardo Motta del 2016 (Chi leggeva Umberto Eco?, edizioni Nuova Trauben) in cui si evidenzia, in fondo, una distanza soprattutto culturale tra gli alessandrini e il loro “consanguineo” più noto in quanto «autore realmente letto e compreso in fondo soltanto da pochissimi privilegiati». Ciò non sottrae l’autore, però, dal richiamare una certa “passività intellettuale” della città, del resto in parte giustificata a fronte della “statura” del geniale studioso alessandrino, figura di riferimento della letteratura contemporanea, autore di saggi fondamentali sul linguaggio. Con l’inesauribile sarcasmo definiva la materia che ha fondato, la semiotica moderna, come «la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire».
La scomparsa di Eco non ha stemperato le polemiche. Forse, involontariamente, anche per confermare le profetiche analisi dello scrittore sui suoi concittadini.
Se nel corso delle esequie del semiologo nel 2016, l’allora sindaco Maria Rita Rossa ha tessuto le lodi dell’illustre concittadino, ricordandone una frase in dialetto, quando spiegava che passare in Chiesa fa bene, «Ussa mai», cioè non si sa mai, e ha fatto deliberare alla sua giunta di intitolare allo scrittore il liceo classico che aveva frequentato, con il supporto del dirigente scolastico Roberto Grenna (Eco, come ribadito in una sua “Bustina di Minerva”, prendeva in giro vie, piazze e monumenti dedicati, considerandoli, come confermato dalla figlia, il modo più semplice per essere dimenticati), il nuovo primo cittadino, Gianfranco Cuttica, in linea con molti ex allievi e alcuni professori fedeli alla figura di Giovanni Plana, matematico di Voghera, nel 2017 ha affossato la proposta e l’ha definita sul quotidiano La Stampa del 29 settembre 2017 “un’alessandrinata”, optando eventualmente per un futuro museo. Ha così acceso, ovviamente, l’immancabile querelle.

Occorrerà attendere maggio 2023 per vedere il polo umanistico della città intitolato ad Umberto Eco, in concomitanza con gli 855 anni dalla fondazione di Alessandria, dopo che la biblioteca civica “Francesca Calvo”, in piazza Vittorio Veneto – Eco era stato presente alla sua inaugurazione – lo ha onorato con un’opera luminosa di Marco Lodola.
In tempi più recenti è stato utilizzato Baudolino come testimonial digitale di Alessandria per i turisti, gli è stato dedicato un murales realizzato da Riccardo Colombo, detto Ten, mentre una serie di paline ideate dall’associazione culturale “Ombre Rosse” segnano i luoghi più significativi che raccontano Eco, uniti dal filo rosso “A spasso con Umberto”.
Al di là, però, della rincorsa ai piedistalli, delle testimonianze materiali – e delle beghe provinciali – il lascito di Umberto Eco, un genio capace di combinare erudizione e narrazione, il filosofo della ragionevolezza, un collezionatore di decine e decine di lauree honoris causa nel mondo e ideatore a sua volta di un corso di laurea rivoluzionario come il Dams, va oltre i riduttivi confini estetici o disciplinari: ha lasciato tracce indelebili nella letteratura, nella filosofia, nel dibattito culturale e ovviamente nella semiotica. Forse, paradossalmente, servirà lo scorrere di qualche generazione per annullare quel nemo propheta in patria e lasciare che nei “nuovi” alessandrini che non l’hanno conosciuto possa scoccare la scintilla dell’interesse e della riconoscenza.
