
Il dibattito sull’attuale quadro del lavoro in Italia, tra luci ed ombre, è caratterizzato, nelle ultime settimane, dall’irruzione dei temi del referendum, del salario minimo, della partecipazione e della contrattazione, materie che determinano – e siamo certi che determineranno nella prova referendaria – un’inutile, anzi dannosa spaccatura nell’opinione pubblica.
Analizzando gli ultimi dati dell’Istat sull’occupazione, che costituiscono un non esaustivo ma certamente significativo punto di partenza, rileviamo che continua la rilevante crescita degli occupati (più 352mila unità nel 2024), il cui tasso ha raggiunto il 63 per cento a febbraio: si tratta di 24 milioni e 332mila unità complessive che lavorano, di cui 16 milioni e 451mila in modo permanente (più 508mila nel 2024), cinque milioni e 170mila in modo autonomo e due milioni e 710mila a termine. Nei dati sono inclusi anche i tirocini extracurriculari.
Positivi anche i numeri che emergono dal sistema delle comunicazioni obbligatorie delle imprese, dove le attivazioni sono in crescita.
Bene anche la conseguente diminuzione del numero dei disoccupati, piaga sociale oltre che economica, il cui tasso è sceso al 5,9 per cento, con quello giovanile al 16,9 per cento.
Percentuali impensabili soltanto qualche anno fa, quando il tasso di disoccupazione era a doppia cifra.
Il rovescio della medaglia è, però, rappresentato dalla scarsa crescita economica, con un Pil debole e la produzione industriale in stallo da quasi due anni, fenomeno dovuto principalmente alle caratteristiche del nostro tessuto produttivo molto frammentato, estremamente terziarizzato, composto da piccole imprese (circa il 95 per cento del totale ha meno di dieci dipendenti) e poco propenso all’innovazione.
Non a caso, come ha sottolineato nelle scorse settimane la Banca d’Italia, “le imprese più grandi hanno saputo mantenere livelli di produttività superiori grazie a un maggiore accesso a finanziamenti e all’adozione di tecnologie innovative”.
Tornando nell’ambito strettamente del lavoro, un dato negativo è costituito dall’elevato numero di occupati con forme di part-time involontario (investe soprattutto la componente femminile), con l’Italia sopra la media europea (29,8 contro 27,9 per cento). Inoltre i contratti temporanei restano il principale canale di accesso al lavoro.
Altri aspetti negativi sono costituiti dall’atavico disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, dalle ancora marcate differenze territoriali tra Nord e Sud del Paese e dall’età media degli occupati enormemente avanzata.
Al di là di approfondimenti di tipo qualitativo, come si spiega, questa dicotomia?
Per Banca d’Italia l’incremento dell’occupazione sarebbe legato principalmente al minor costo del lavoro. E ciò conferma la bontà dei tagli al cuneo fiscale: aziende che pagano meno tasse tendono ad assumere di più.
Resta il nodo dei giovani: le scarse opportunità riferite a questo segmento genera la famigerata “fuga dei cervelli”, che, per un paradosso sociale e statistico, contribuisce ad abbassare il numero dei disoccupati, a fronte di risorse spese inutilmente dallo Stato per la formazione di ragazzi destinati ad abbandonare il nostro Paese.
Il problema basilare resta il basso livello medio delle retribuzioni in Italia, per cui non soltanto i giovani, ma anche tanti professionisti preferiscono trasferirsi all’estero.
In questo contesto, il dibattito sul salario minimo legale – proposto come soluzione al nodo dei compensi – torna al centro dell’agenda politica e sindacale, strettamente connesso all’articolo 36 della Costituzione, che sancisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
È noto come questo principio venga attuato attraverso la contrattazione collettiva nazionale, che ha assunto nel tempo un ruolo essenziale – normato in particolare dall’art. 51 del d.lgs numero 81 del 2015 – e costituisce il principale strumento di definizione della retribuzione minima, composta ad esempio nell’ambito delle tredicesima e quattordicesima mensilità, delle indennità di mansione, dei premi, del trattamento di fine rapporto (disciplinato dall’art. 2120 del Codice civile), ecc.
La contrattazione collettiva di qualità consente non soltanto l’integrazione salariale, ma anche un sistema di tutele integrative che nessuna legge può offrire, come l’introduzione di elementi di welfare, quali la sanità integrativa, la previdenza complementare, la formazione, la conciliazione vita-lavoro. Insomma, il tanto ricercato benessere lavorativo.
Sul piano economico, i consulenti del lavoro, attraverso un proprio interessante studio su sei CCNL (terziario, distribuzione, servizi; metalmeccanico; artigiani metalmeccanici; logistica e trasporto; pmi metalmeccaniche; turismo e ristorazione), prendendo come riferimento i livelli di ingresso hanno quantificato la retribuzione lorda minima oraria tra 9,69 e 11,57 euro, quindi oltre quanto contenuto nella proposta di legge depositata il 30 giugno 2023 dalle opposizioni, che prevede un salario minimo legale di nove euro.
Se è vero che nella maggior parte delle nazioni europee il salario minimo viene fissato per legge, è altrettanto vero che in Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia, causa anche la specifica fisiologia del mondo del lavoro con ampie componenti sindacali, è la contrattazione collettiva a prevedere la misura dei minimi di retribuzione.
Dopo decenni in cui la contrattazione ha garantito retribuzioni coerenti con i principi dell’articolo 36 della Costituzione, difendendo la dignità del lavoro e l’equilibrio economico delle imprese, davvero l’introduzione di un salario predeterminato per legge risolverebbe da noi, in un mondo del lavoro in grande evoluzione, le problematiche legate alle dinamiche reddituali, alla sicurezza sul lavoro, al dumping contrattuale, al lavoro nero e a quello povero? Una sorta di bacchetta magica rappresentata unicamente da una cifra minima?
Noi riteniamo, al contrario, che il salario minimo per legge rischi di abbassare ulteriormente i salari, in una sorta di spirale al ribasso, accrescendo la frammentazione contrattuale (in Italia esistono enormi differenze non soltanto tra settori e qualifiche professionali, ma soprattutto tra territori) e pregiudicando in particolare quel welfare contrattuale conquistato con anni di negoziazione tra le parti sociali.
Proprio l’attuale fase di grandi trasformazioni nel mercato del lavoro, si pensi all’impatto dell’intelligenza artificiale nelle funzioni svolte attualmente da un essere umano, impone la possibilità di introdurre strumenti flessibili che di certo la staticità di una legge non possono assicurare.
Contrattazione, concertazione e partecipazione, come giustamente richiama la Cisl, costituiscono un triangolo di un moderno riformismo sindacale.
Per contrastare le piaghe che continuano ad interessare il mondo del lavoro – quali sicurezza sul lavoro, dumping contrattuale, lavoro nero e altri fenomeni nefasti – l’unica strada è quella di rafforzare gli strumenti della vigilanza e del controllo.
Riguardo ai referendum, in particolare a quelli lavoristici, troviamo non solo sbagliato l’utilizzo di questo importante strumento democratico su tali delicate e settoriali materie, ma riteniamo che il tentativo di riportare indietro le lancette della storia sia incoerente rispetto ad un mondo che, volenti o nolenti, è notevolmente cambiato.