
Non c’è pace per la cultura in Italia. E per il ministero della Cultura. Il ministro Alessandro Giuli, che a settembre scorso ha sostituito il predecessore Gennaro Sangiuliano dopo le note burrascose vicende personali di quest’ultimo, sta sostanzialmente rivendicando e attuando un ruolo “politico” per il suo dicastero. Lo sta facendo attraverso gli scontri, per lo più ideologici, con i settori rappresentati dal suo stesso ministero – in primis il mondo del cinema – visti come roccaforte storica dei cosiddetti vecchi e nuovi “intellettuali di sinistra”.
Non a caso la polemica sollevata dal mondo del cinema sulla situazione economica e lavorativa del comparto è stata funzionalmente spostata dal ministro su un piano dottrinale: c’è una quasi implicita rappresaglia ideale, una rivincita epocale, una rivalsa concettuale nelle ferree intenzioni della destra, reduce dai decenni di ghettizzazione imposta al Msi dall’arco costituzionale, di voltare pagina nelle politiche culturali, liberandole dalla lunga egemonia della sinistra.
Se l’estesa ed efficace narrazione dell’occupazione dei posti che contano (la “Ztl”) da parte dei “compagni da pensiero unico”, abili nell’amichettismo e nelle congreghe radicalchic, ha contribuito al successo elettorale “di cambiamento” operato dai “patrioti” – insieme ai tradizionali mantra della sicurezza e della lotta alle tasse – ora, sostenuti dal vento di destra, c’è il proposito procedere, frettolosamente (e quindi anche alla bell e meglio), al drastico cambio di rotta. Largo, ad esempio, a mostre e convegni su autori e fenomeni culturali da sempre cari alla nostalgia, da D’Annunzio al futurismo fino a Tolkien. Restaurazione più che riabilitazione.
Il nodo vero è che mentre la sinistra ha costruito la sua egemonia promuovendo cultura lungo diversi decenni (non senza errori, frizioni interne e dosi di arroganza), investendo su giornali, libri, case editrici, luoghi del sapere, persino su una classe di “intellettuali” portati spesso in parlamento anche per sopperire alla quasi totale estromissione dai “posti di comando”, la destra sul piano culturale lo sta facendo soltanto oggi a seguito della vittoria elettorale del 2022. Cioè senza la creazione di un apparato culturale strutturato e di un radicamento nei comparti vitali della conoscenza. Così, persino molti di quei “seri” intellettuali di destra tendono a defilarsi da iniziative organizzate in modo estemporaneo. Perché un’egemonia non si può sostituire con un semplice cambio di legislatura e di casacche.
La collisione ideologica in atto da tempo, ha assunto una personificazione nel botta e risposta a distanza tra Elio Germano e il ministro Alessandro Giuli.
Il giovane attore romano d’origine molisana, tra i più premiati del nostro cinema anche a livello internazionale (oltre ai sei David di Donatello, anche il premio per la migliore interpretazione maschile a Cannes nel 2010 e l’Orso d’argento a Berlino nel 2020), lo scorso 7 maggio, durante il ritiro del David come attore protagonista per il film Berlinguer-La grande ambizione di Andrea Segre, ha accusato il governo di disinteressarsi dei problemi del cinema. Ha detto: “Mi piacerebbe che invece di piazzare i loro uomini nei posti chiave come fanno i clan si preoccupassero di fare davvero il bene della nostra comunità mettendo le persone competenti nei posti giusti”.
Giuli ovviamente non ha preso bene quel riferimento ai “clan” ed in un’intervista alla Stampa ha accusato Germano di averlo accostato alla mafia e, durante un evento a Firenze, ha di nuovo citato Germano accusandolo di fare parte di una “minoranza rumorosa” che approfitta della propria visibilità e di luoghi istituzionali per “cianciare in solitudine”.
Lo stesso ministro, a proposito della cultura di sinistra, ha affermato che un tempo era dotata di intellettuali, mentre ora “sono rimasti i comici e basta”, con riferimento in particolare a Geppi Cucciari che aveva detto, a proposito degli interventi di Giuli, che “possono essere ascoltati anche al contrario, e spesso migliorano”.
Al di là di questa saga delle provocazioni, “una comunicazione di pernacchie tirate gli uni contro gli altri” come l’ha definita Favino nel corso di un’intervista alla Repubblica, resta il problema sollevato da Germano e rilanciato da 94 protagonisti del mondo del cinema (tra cui Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino, Matteo Garrone, Nanni Moretti, Ferzan Ozpetek, Paolo Sorrentino, Paolo Virzì, Luca Zingaretti) attraverso una lettera rivolta a Giuli, in cui gli chiedono di darsi da fare per migliorare le condizioni del settore.
“La situazione lavorativa e produttiva del cinema italiano è indubbiamente in crisi – si legge nel testo. “Negli ultimi due anni il quadro di complessiva incertezza normativa e i ritardi, generati in primis dall’operato del governo nella gestione della riforma del ‘Tax credit’, hanno causato una crisi di sistema che ha colpito molte produzioni, soprattutto le più piccole e indipendenti, e ha lasciato senza lavoro centinaia di lavoratrici e lavoratori, a cui manca anche un sostegno al reddito per il 2025 e un sussidio di recupero salariale e contributivo per il 2024… L’auspicata prossima pubblicazione della versione definitiva del decreto correttivo Tax credit è una prima risposta, ma incompleta e insufficiente… Chiediamo che il Ministero incontri quanto prima le associazioni che uniscono e rappresentano attori, autori e tecnici ascoltando le richieste urgenti che da mesi promuovono”.
Secondo una petizione presentata qualche settimana fa da una ventina di associazioni, attualmente circa il 70 per cento delle persone che operano nel cinema è senza occupazione da oltre un anno. Sotto accusa anche il ritardo del governo nell’avviare la riforma del cosiddetto “Tax credit”, sgravio fiscale fino al 40 per cento delle spese sostenute per fare un film, potenziato da una legge nel 2016.
L’aspetto più avvilente della vicenda è aver colto l’occasione per “fare le pulci” ad Elio Germano sul piano economico, calcolando quanti soldi abbiano preso dallo Stato i film che ha interpretato e quanto abbiano incassato al botteghino. Secondo il quotidiano La Verità, citando i dati del mensile Box Office, gli incassi degli ultimi film ammonterebbero a 12 milioni contro i 17 milioni di finanziamenti. Come se la qualità di un prodotto dipendesse unicamente dalla quantità di sedie occupate in una sala cinematografica.
Ridurre la cultura a pura ragioneria è scoraggiante: lo stesso discorso si potrebbe estendere, allora, ai finanziamenti per i giornali, per le case editrici, persino per le sagre di piazza che ricevono abitualmente l’obolo dal municipio. Senza valutare che un premio ottenuto da Germano a Cannes o a Berlino vale più di tanta discutibile, a volte inutile e sempre costosa promozione effettuata da un ministero o dagli enti locali. Con i soliti soldi dei contribuenti.