Donald Trump, 78 anni, tre mogli, cinque figli e dieci nipoti, è il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Una vittoria netta, con la conquista degli Stati-chiave e con il conseguimento del controllo del Senato. Attualmente, a spoglio in corso, ha quasi sei milioni di voti più dell’avversaria.
Il risultato delle urne ha screditato la maggior parte dei sondaggi preconizzanti un testa a testa (più di qualcuno dava la vittoria alla Harris) e ha ridimensionato le tante analisi sociologiche degli ultimi giorni, che hanno radiografato la popolazione statunitense assegnando il peso delle città o delle campagne, dei bianchi o dei neri, degli afroamericani o degli ispanici, dei laureati o dei non laureati, degli uomini o delle donne a questo o a quel candidato.
In realtà, al di là di origini etniche o sociali, di estrazioni, generi ed opinioni, a pesare in modo decisivo sono stati i temi trasversali: in primis la crisi economica conseguente all’inflazione, il carovita, l’insoddisfazione per l’attuale gestione della nazione (suffragata da una ricerca commissionata dal New York Times) e l’immigrazione, argomenti estremamente correlati nei giudizi di molti elettori e ormai decisivi per le urne dei Paesi occidentali. Un peso certamente maggiore rispetto ai temi dell’aborto o delle guerre, tanto sbandierati nelle piazze ma evidentemente meno avvertiti nel silenzio delle urne (lo conferma il risultato dei referendum paralleli all’elezione del presidente). Lo slogan «Trump will fix it» («Trump sistemerà tutto») ha quindi fatto presa, insieme al «Make America Great Again» («Maga») esibito in una selva di cappellini rigorosamente rosso repubblicano negli affollati comizi.
Semmai ad avere un ruolo considerevole sono stati i magnati delle imprese che contano – in testa Elon Musk, con l’account su X seguito da oltre 200 milioni di utenti – che hanno riposto la propria fiducia, concretizzatasi a suon di donazioni, al tycoon, mentre i democratici sono ricorsi al solito mondo dello spettacolo, una parata di stelle che di solito assicura più immagine che sostanza.
Ma la vittoria di Trump è l’ennesimo mandato degli elettori al carisma individuale dell’uomo forte e risolutivo che promette di affrontare con pragmatismo buona parte dei problemi sociali contemporanei; è la delega al sogno epico collettivo, anche un po’ isterico, in grado di cancellare le conseguenze di una politica tradizionale sempre più grigia e debilitata, a cui sono associate buona parte delle paure contemporanee ascritte principalmente alle conseguenze dell’immigrazione; è il successo di chi è percepito come outsider rispetto all’establishment detentore dell’ordine costituito; è l’apoteosi del concetto di libertà ingigantito all’inverosimile nei miti del web e delle nuove monete digitali contrapposto allo Stato burocratico, vecchio ed opprimente, in un’ormai perenne crisi d’identità; è la divinizzazione del suprematismo convulso che in nome della difesa dei valori tradizionali, della fede, della famiglia, puntella confini e consuetudini culturali. È soprattutto l’economia del presente (e del futuro) che surclassa i freni ambientalisti, con l’orgoglio americano che tenta di contrapporsi alle economie emergenti con l’obiettivo di perpetuare l’ultrasecolare supremazia a stelle e strisce.
Al di là delle motivazioni che hanno spinto buona parte degli americani a preferire Trump alla Harris, la domanda ora ricorrente è cosa succederà alle nostre latitudini. Non mancano, infatti, timori europei che si concentrano principalmente su due fronti: il primo riguarda l’applicazione di eventuali dazi da parte degli Usa, tema ha accompagnato buona parte della campagna elettorale a seguito delle dichiarazioni del neopresidente circa l’enorme mole di importazioni americane dall’Europa; il secondo è la richiesta americana di maggiori investimenti europei in ambito militare.
Trump, in sostanza, vorrebbe migliorare l’economia della sua nazione anche attraverso i dazi e minori spese per la difesa, compensate dagli Stati europei. Se tali prospettive dovessero avverarsi, sarebbe indubbiamente un colpo al libero mercato globale.
Un altro nodo riguarda la guerra in Ucraina: il tycoon ha promesso di risolverla convocando Zelens’kyj con la minaccia di tagliargli gli armamenti e di indurlo alla trattativa e alla pace. Credibile la cessione della Crimea o di territori in Donbass in cambio dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Scremando l’affermazione dall’esigenza di propaganda, di certo dopo l’invio di innumerevoli armamenti all’Ucraina, ciò costituirebbe comunque la resa a Putin.
Riguardo alla crisi in Medio Oriente, non va dimenticato che Trump portò l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ed è stato il promotore degli accordi di Abramo. Insomma, qualcosa potrebbe cambiare rispetto all’attuale stallo con decine di migliaia di vittime.
Da un punto di vista squisitamente politico, per quanto riguarda il nostro Paese, gli Usa si confermeranno un alleato strategico per l’Italia, una realtà consolidata che va oltre il colore politico dei governi.