Come la pandemia ha cambiato il lavoro e i lavoratori

Vanessa Pompili
22/05/2023
Tempo di lettura: 4 minuti
Lavoro

Negli Usa è “Great Regret”, da noi semplicemente “Grandi Dimissioni”. È il fenomeno socio-lavorativo che ha caratterizzato l’uscita dalla pandemia e che non sembra ancora essersi concluso. Gli anni del Covid-19 hanno travolto e ripensato il mondo del lavoro, creando nuove soluzioni, modelli e spazi, senza lasciare indenni i lavoratori con conseguenze che hanno sconfinato nella sfera emotiva e relazionale.

L’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano si è interessato alle varie dinamiche occupazionali che si sono innescate in Italia negli ultimi anni. Emerge così che oggi solo il 7 per cento (circa 1,3 milioni lavoratori) dei lavoratori dichiara di essere “felice”. E solo l’11 per cento sta bene su tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo: psicologica, relazionale e fisica. L’aspetto più critico è quello psicologico: il 42 per cento dei lavoratori ha avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere psicologico e/o relazionale.

Dalla ricerca dell’Osservatorio è emerso un senso generale di malessere che ha portato a vari fenomeni. Uno di questi è quello delle “Grandi Dimissioni” (“Great Regret”) che in Italia, in Italia caratterizza maggiormente gli uomini e le persone con più di 50 anni di età. Complessivamente, il 46 per cento dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi dodici mesi o ha intenzione di farlo, una percentuale che raggiunge il 77 per cento per gli under 27. E il 55 per cento di chi dice di voler cambiare lavoro sta già facendo colloqui. Ma non tutti quelli che lo hanno fatto hanno trovato quel che cercavano: il 41 per cento si è pentito della scelta fatta.

Un altro elemento emerso dallo studio è quello dei cosiddetti “Quiet Quitter”: ben il 12 per cento dei lavoratori italiani (circa 2,3 milioni di lavoratori) oggi si limita a fare il minimo indispensabile e non è coinvolto emotivamente nelle attività lavorative, perché non si sente valorizzato nei propri talenti e ha deciso di “spegnersi”, utilizzando al minimo le proprie energie sul lavoro. All’opposto, c’è poi chi, un 6 per cento (circa 1,1 milioni di lavoratori), non riesce a smettere di lavorare, anche nei momenti in cui ci si dovrebbe dedicare alla vita privata. Sono i “Job Creeper”.

“La pandemia ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e individualismo che porta a non vedere più il lavoro come unica o principale priorità, ma a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita – ha spiegato Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice. “In questo contesto la direzione HR può e deve avere un ruolo chiave nel comprendere e interpretare il futuro, aiutando l’organizzazione a ridisegnare la propria relazione con le persone. Le evidenze della ricerca suggeriscono come sia necessario partire dall’ascolto e dalla presa d’atto che alla base della crisi attuale ci sia innanzitutto una sempre più pressante ricerca da parte delle persone di equilibrio e felicità attraverso il lavoro. Un totale cambiamento di mentalità che sfida la cultura tradizionale”.

In questo mercato del lavoro così travagliato si aggiunge un’altra criticità: il 59 per cento delle organizzazioni prevede una crescita dell’organico nel 2023, ma il 94 per cento ha difficoltà ad assumere nuovo personale. Una difficoltà che riguarda in primis le professionalità digitali, ma non solo: mancano anche profili tecnici, operai e manutentori.

La pandemia ha solo accelerato una tendenza già in atto in precedenza. Ha così velocizzato la migrazione in digitale di molte attività prima svolte in analogico e la conseguente necessità di potenziare la protezione di dati per la crescita degli attacchi informatici.

Negli ultimi cinque anni il 63 per cento delle professioni ha visto l’automazione di almeno una parte delle sue attività. Il 74 per cento ha dovuto apprendere nuove competenze e abilità per continuare a svolgere il proprio lavoro e il 17 per cento è stata riqualificata, internamente o esternamente, in un’altra professione. Le direzioni HR ricoprono un ruolo chiave nel far evolvere le professionalità e le competenze.

“Per riuscire a trasformare sé stessa ed essere di reale supporto alle persone e all’organizzazione, l’innovazione tecnologica può giocare un ruolo fondamentale – ha affermato Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice. “Il mercato HR Tech si è evoluto a un ritmo straordinario negli ultimi anni, ma le applicazioni più innovative faticano a diffondersi sul territorio italiano. Ne sono un esempio le soluzioni di intelligenza artificiale, che offrono la possibilità di reinventare l’approccio della direzione HR, personalizzando l’esperienza offerta alle persone, dai processi di recruiting ai percorsi di crescita e di sviluppo. Tra le principali difficoltà per le organizzazioni, c’è quella di comprendere le competenze che saranno necessarie nei prossimi 3-5 anni per pianificare in maniera strategica le attività di riqualificazione, fondamentali per garantire l’impiegabilità futura delle persone e il successo del business. Solo il 15 per cento ne ha chiara consapevolezza”.

Vanessa Pompili