Buon lavoro al governo (specie su agricoltura e turismo)

Domenico Mamone
25/10/2022
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L’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi rappresenta indubbiamente una rilevante novità da vari punti di vista. Per ora, comunque la si pensi, possiamo prendere atto e giudicare i primissimi passi, legati per lo più alla composizione dei ministeri. Occorrerà, invece, attendere i primi provvedimenti per un’analisi più corposa, contestualizzata anche in base alle istanze e alle attese della nostra organizzazione, concentrate quindi principalmente nei settori economici e sociali.

Scevri da preconcetti e pregiudizi, possiamo evidenziare le premesse più promettenti. 

Innanzitutto, dopo anni di governi tecnici o di esecutivi non espressi direttamente dalla volontà degli elettori, abbiamo degli “amministratori” del nostro Paese che fanno parte dell’area politica premiata nettamente nelle urne. È il compimento pieno della democrazia, per quanto orfana di molti potenziali elettori. Un cambio di passo importante che restituisce oneri e onori alla Politica. Sperando che la forte maggioranza assicurata dall’elettorato corrisponda ad una governabilità coesa, quindi stabile e lunga nel tempo.

Un secondo elemento, già salutato con interesse anche al di fuori dell’area politica di appartenenza, è la prima volta di una premier donna.

Una terza osservazione riguarda il fatto che la destra, quella maggiormente identitaria, sia stata scelta dalla maggior parte degli elettori per governare. Superando ogni preclusione ideologica richiamata in campagna elettorale dalla sinistra. È una svolta epocale, anche perché le radici di questo mondo sono antiche e ricordano i decenni in cui il Movimento sociale italiano – il partito dell’adolescenza della premier, del presidente del Senato e di tanti ministri – ha rappresentato non solo l’opposizione in parlamento, ma, in alcune frange, ha offerto idee in netta antitesi al sistema. Occorrerà allora capire se quei semi, a lungo estromessi dal vivaio politico, proporranno frutti in un contesto oggi più istituzionalizzato o, com’è stato per i Cinque Stelle al governo, tenderanno ad omologarsi sulle più tradizionali posizioni occidentali. Proprio su questo equilibrio tra antico e moderno, tra aree ideologizzate e settori più pragmatici, Giorgia Meloni dovrà dimostrare abilità. Per ora, anche attraverso l’incontro con il presidente francese Macron e con molteplici dichiarazioni, ha garantito assicurazioni nel mantenere la linea europeista e filo-Nato rivendicata dal predecessore. Ma, nel contempo, non ha rinnegato i valori più antichi della destra.

Infatti le scelte iniziali, per quanto “di facciata”, confermano questo attaccamento alla tradizione: ai vertici delle Camere sono state designate due personalità che incarnano dei valori netti del mondo conservatore, dal patrimonio della morale cattolica al legame indissolubile con l’idea di nazione, mentre anche il “lessico” dei ministeri ha acquisito termini insiti profondamente nella cultura di destra e rivalutati, negli ultimi tempi, da quell’elettorato che ha premiato per la prima volta la Meloni e i “compagni di cordata”: il “merito”, antitesi della cultura omologatrice sessantottina, la “sovranità”, specie in campo alimentare, in opposizione ai problemi apportati dalla mondializzazione e soprattutto il “made in Italy”, bandiera dell’eccellenza italiana nel mondo e biglietto da visita del mondo produttivo.

Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega (e Lupi) hanno un forte collante proprio in questa cultura autoctona territoriale e nazionale, che riesce ad armonizzarsi nei valori identitari di un’Italia che è nazione, ma anche somma di municipi, con il dedalo di esperienze, memorie, saperi ed eccellenze. Proprio su questo terreno i tre partiti si integrano perfettamente, non a caso governano insieme, senza problemi, sedici delle venti regioni italiane.

Insomma, al di là degli inevitabili “aggiustamenti” e delle immancabili frizioni, la squadra di governo sta dimostrando aderenza principalmente grazie a tale retroterra ideologico, che si concretizza nel pragmatismo. Cioè, mentre la sinistra è ingabbiata nell’ideologia, la destra appare più realista nell’indicare e quindi nell’affrontare i veri problemi che affliggono le famiglie.

La sfida, racchiusa nelle parole-chiave del nuovo governo, è principalmente quella di rompere con il peggiore passato, quello degli apparati statali incancreniti che continuano a costituire un freno non solo per il senso civico dei cittadini e per la loro fiducia nella politica, ma soprattutto per il mondo imprenditoriale, quello a cui è delegato il primario compito di apportare ricchezza con prodotti e servizi, creare posti di lavoro e accrescere il benessere collettivo.

Le sfide che attendono il governo, lo sappiamo, sono impegnative. C’è innanzitutto la difficile congiuntura internazionale, tra invasione russa dell’Ucraina (con le pesanti conseguenze economiche e sociali) e inflazione, su cui onestamente l’esecutivo può poco, se non offrire il proprio contributo di proposte e idee in sede comunitaria.

Sul fronte nazionale, oltre ai tanti tavoli aperti delle crisi industriali da affrontare, da Ita a Tim fino al “solito” Monte dei Paschi di Siena, c’è la lunga lista di criticità che caratterizzano il tessuto produttivo a causa principalmente dell’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime.

Una materia particolarmente vicina alla nostra organizzazione è quella dell’agricoltura. Benché il nuovo governo non abbia ancora emesso un solo provvedimento, va però evidenziato che dal momento che le parole hanno un peso, l’aver rinominato il ministero richiamando la “sovranità agricola” (tanti osservatori che hanno ironizzato non si sono accorti che i francesi – e non solo loro – già l’hanno fatto da tempo) ha perlomeno il merito di aver riacceso il dibattito su questa vitale materia.

La “sovranità alimentare” può costituire l’indicazione di un percorso proficuo laddove non si riduca a richiami autarchici (che onestamente ci sembrano lontani dalle intenzioni), ma nel rivendicare la centralità di quel “made in Italy” che contribuisce al successo del nostro export, insieme all’abilità e alla tenacia degli operatori agricoli. Cioè è pienamente legittimo non solo difendere, ma supportare le nostre eccellenze agroalimentari, materia non delocalizzabile e che costituisce anche occasione di contrasto alla diffusione di prodotti scadenti d’importazione, nonché all’omologazione delle produzioni e del gusto. La “sovranità” può rappresentare una strada privilegiata per richiamare la centralità delle produzioni agricole anche come mezzo per la salvaguardia dell’ambiente (si pensi agli enormi problemi demografici dell’entroterra, specie nel Mezzogiorno, strettamente connessi al dissesto dei territori).

Il nuovo governo, almeno nelle intenzioni, ha già destato positivo interesse. La prima uscita della premier è avvenuta davanti alla platea di un’organizzazione agricola, fatto senza precedenti. Il neoministro ha parlato di “aumento della resa delle produzioni”, di “contratti di filiera chiari”, di “lotta alle pratiche sleali”, di “investimenti sull’innovazione anche per mettere un freno alla speculazione sulle materie prime come il grano”. Programmi che naturalmente condividiamo e che rimettono al centro il concetto di cultura rurale. Il libero commercio senza regole, in mano ai gruppi multinazionali (spesso senza scrupoli), non può essere la soluzione. Bisogna avere il coraggio, senza scadere nella retorica, di recuperare quell’orgoglio per le proprie radici e per i frutti del proprio lavoro che incarna una sicura fonte di benessere.

Analogo discorso, del resto strettamente legato, riguarda il turismo, dove l’Italia ancora non esprime appieno tutte le potenzialità nonostante sia una vera e propria miniera di testimonianze del passato e di opere d’arte, non a caso con il primato dei siti Unesco in tutto il mondo.

Domenico Mamone