Racconta lo storico dell’arte Gioele Scordella, tra i massimi esperti di beni artistici abruzzesi, che mentre era guida volontaria nella Cattedrale di Atri (Teramo) durante le Giornate del Fai, il Fondo ambiente italiano, una signora gli chiese se avesse potuto unirsi nonostante fosse piena di buste della spesa, segno evidente del ritorno dal Conad di vicino piazza Duomo. “Non sto fino alla fine, lo vedi, sto ‘ngiampata, però qualcosa sulla ‘chiesa nostra’ mi piace a saperlo” fu il commento dell’insolita ospite.
La locuzione “chiesa nostra” la dice lunga sul valore allegorico e identitario di un luogo di culto. Tanto più se questo ha il fascino e la potenza della Cattedrale di Atri. E se un atriano rivendica fortemente – com’è naturale che sia – l’appartenenza alla propria “Cattedra del Vescovo” anche per l’indiscutibile fascino materiale e immateriale che questa emana (compreso quel culto della Madonna – di Maria Assunta – rinnovato nelle tante feste religiose), un estraneo che ha visitato casualmente Atri qualche anno fa, con quell’atteggiamento un po’ prevenuto che si ha quando da una grande città si finisce in una cittadina di provincia dove tutto viene considerato “minore”, lega ormai indissolubilmente il nome di Atri alla scoperta di una Cattedrale tra le più belle mai visitate. Paradisiaca principalmente per lo straordinario ciclo quattrocentesco di affreschi, una sorta di “Cappella Sistina” ante litteram. Occasione per tornare in loco e, come i bambini in cerca di conferme, riassaporare il piacere della bellezza in terra d’Abruzzo.
IL PIACERE DELLA SCOPERTA. Certo, in ogni angolo il nostro Paese offre impareggiabili luoghi di culto. Sia per architetture sia per opere d’arte custodite. E quasi sempre la differenza di notorietà – e conseguentemente di apparente importanza – la fa soltanto la capacità di promozione territoriale e l’inserimento più o meno rilevante nei flussi delle vicende storiche o, attualmente, del turismo di massa. Eppure, per chi ha avuto il privilegio di visitarla, la Cattedrale di Atri non ha alcunché da invidiare a certe “perle” monumentali di cui è ricco il Centro Italia, dalla ventina di Cattedrali in Toscana a quelle umbre di San Rufino ad Assisi, San Feliciano a Foligno, Santa Maria Assunta ad Orvieto e San Lorenzo a Perugia, da San Giorgio Martire a Ferrara a San Cassiano ad Imola fino a Sant’Emidio ad Ascoli Piceno: il duomo abruzzese resta impresso nella memoria soprattutto per quell’incomparabile, coloratissimo ed elegante ciclo di affreschi perfettamente conservato, appunto come un’avanguardista “Cappella Sistina”. Tanto più che l’inizio della realizzazione abruzzese è precedente di circa 15 anni rispetto al capolavoro romano.
Il silenzio gotico e un po’ ossianico degli imponenti volumi della Cattedrale, lunga una sessantina di metri per venticinque, è rotto soltanto da un lontano vociare. È quello dei due addetti del bellissimo museo capitolare a cui si accede dalla chiesa. Sono loro i testimoni quotidiani dello stupore espresso dai visitatori. È l’ammirazione frutto della sorpresa per questa inusuale scoperta artistica in una cittadina che già offre un’eccellenza naturale con gli ameni calanchi che la circondano. E il tanto da vedere e da “assaporare” con tutti i cinque sensi.
I due custodi della ricca collezione di opere d’arte conservate nelle dieci sale del museo, ospitato nel chiostro benedettino di un monastero del XII secolo (è stata sede dei Cistercensi, poi cimitero episcopale), con tanto di pozzo e cripta, sono sempre pronti a convergere con l’ammirazione espressa dagli ospiti per il panorama di affreschi. E non rinunciano a toccare la nota dolente, con un po’ di genuina vis polemica molto diffusa da queste parti: la scarsa valorizzazione. Perché Orvieto sì e Atri no?
In effetti, Atri merita molto di più. L’ulteriore conferma la offrono le notizie storiche sul comprensorio religioso. Si svela che l’ammaliante ciclo di affreschi è stato realizzato nientemente che tra il 1460 e il 1481, cioè agli albori del Rinascimento. Autore ne è stato Andrea de Litio, abruzzese di Lecce nei Marsi, ma formatosi a Firenze. E scomparso proprio ad Atri nel 1495.
Il ciclo include, nelle pareti superiori, le storie di Gioacchino, il padre di Maria citato nei Vangeli apocrifi, e in quelle mediane ed inferiori le storie della figlia Maria, la madre di Gesù. In tutto ben 101 pannelli affrescati.
Nelle quattro vele in alto spiccano le ampie figure di Evangelisti e Dottori della Chiesa, disposti come ad Assisi da Giotto nella Chiesa di San Francesco. Ma la sua forte vena identitaria, al pari di un Ambrogio Lorenzetti a Siena o di un Giulio Romano a Mantova, è riscontrabile anche nella presenza, nelle sue opere, della fedele documentazione della vita abruzzese del Quattrocento, dove non mancano i pastori, il gregge o il ritorno dai campi, emblemi dell’Abruzzo più autentico. L’incontro tra spiritualità e vita civile, quindi, è ai massimi livelli. Un po’ come certe piazze storiche presidiate dal Duomo e dal Palazzo civico in una proficua e sana competizione.
La chiesa, inoltre, nella navata sinistra conserva altri importanti dipinti trecenteschi e di notevole interesse sono Sant’Orsola, Cristo nell’Orto degli Ulivi, Cristo in mandorla, opere del Maestro d’Offida, che le realizzò nel 1340. Emerge l’assonanza con la cultura napoletana.
LA CATTEDRALE. Il “contenitore” di queste perle artistiche non è da meno: la facciata, con conci in pietra d’Istria, presenta un bel portale e un grande rosone, sovrastati dalla statua di Madonna con Bambino all’interno di una nicchia. L’interno, a tre navate divise da arcate, offre subito la visione della singolare acquasantiera (secondo pilastro a destra), con donna rappresentata in costume tradizionale atriano. Antichissimi i tre portali, due di Raimondo di Poggio (1288 e 1302) e uno di Rainaldo d’Atri (1305). Nelle lunette sopra i portali restano tracce di affreschi quattrocenteschi ormai dissolti.
Il pavimento del presbiterio fa intravedere, grazie alle lastre di cristallo, il selciato di edificio termale romano, rinnovando quella stratificazione storica, un unicum nel nostro Paese, che ha nella basilica di San Clemente a Roma l’emblema più conosciuto grazie ai cinque “strati”. Sotto la Cattedrale di Atri s’intravedono avanzi di mosaici pavimentali in bianco e nero con figure di animali marini, probabilmente del III secolo dopo Cristo.
Il “gioiello” gotico di Atri, terminato nel 1305 in sostituzione di una chiesa romanica a cinque navate del IX secolo di cui rimangono resti di muri parietali, pilastri e lo straordinario affresco duecentesco “Incontro dei vivi e dei morti” (due scheletri che spaventano tre nobili), offre altre singolarità. A cominciare dalla Porta Santa: Atri condivide questo privilegio, a livello mondiale, soltanto con Roma e l’Aquila. Viene aperta ogni anno a metà agosto per la Perdonanza (indulgenza plenaria), concessa probabilmente per la prima volta da Papa Celestino V, molisano di nascita e abruzzese d’adozione, che tra i suoi più affezionati discepoli ebbe il Beato Francesco Ronci di Atri.
E se la Cattedrale, con il suo ciclo di affreschi, costituisce uno dei maggiori richiami per l’intero territorio, il centro storico che si snoda intorno alla piazza del Duomo, dove si affaccia anche il bel teatro comunale di impronta neoclassica, è uno scrigno di preziosità tra antiche chiese, eleganti palazzi storici (come l’Acquaviva in piazza Marconi, sede del municipio), portici, vicoli, fontane, botteghe (con la liquirizia, eccellenza del posto), fino al Belvedere di viale delle Clarisse con vista sui calanchi, sull’Adriatico, sulla Majella e sul Gran Sasso. È il cuore immenso dell’Abruzzo.