Alle radici del lavoro “solidale” nella Capitale: l’esempio dei molisani a Roma

Giampiero Castellotti
16/09/2022
Tempo di lettura: 6 minuti
Le ultime transumanze in Molise

L’attore Elio Germano racconta che quando il nonno nel dopoguerra emigrò dal Molise a Roma per poter lavorare dignitosamente, venne arrestato perché era senza permesso di soggiorno. Appena duecento chilometri di una “migrazione” di qualche decennio fa – da Duronia, provincia di Campobasso, alla Capitale – che richiamano tanti attuali “viaggi della speranza”, differenti unicamente nelle località di partenza, ma analoghi per obiettivi: il lavoro e l’integrazione. Con l’auspicato risultato di una vita migliore.

L’economia romana, come la conosciamo oggi, ha beneficiato di generazioni di cittadini provenienti da fuori città. Oltre ad assicurare braccia e menti, schiere di giovani principalmente meridionali hanno offerto competenze spesso acquisite in secoli di pratica nell’ambito familiare, in particolare nell’ambito artigianale, agricolo e zootecnico. Non sono mancate difficoltà di inserimento lavorativo e sociale nella metropoli romana, come dimostra il racconto di Germano. Ma oggi possiamo finalmente attestare, numeri alla mano e senza ombra di smentita, che ogni apporto migratorio è professionalmente e umanamente proficuo: ad esempio, senza quel nonno molisano, Roma non avrebbe dato i natali ad uno dei più bravi attori italiani, vincitore di premi prestigiosi tra cui la Palma d’oro a Cannes. E l’economia romana, nel suo complesso, sarebbe molto più povera.

Si tratta di tanti e quasi sempre sconosciuti fenomeni migratori interni che hanno dissanguato paesi montani del Lazio e delle regioni limitrofe ed offrono oggi lo spunto per qualche considerazione.

La montagna italiana, specie con il declino della pastorizia ed il richiamo delle città in espansione negli anni Cinquanta e Sessanta, ha rappresentato un ambiente di sofferenza per intere comunità di giovani che si sono riversati in massa all’estero, nel Nord Italia e nella Capitale. La conseguenza più evidente di tali “diaspore umane” è nei numeri: Roma dal milione e mezzo di residenti all’inizio degli anni Cinquanta ha raggiunto i due milioni e 200mila appena dieci anni dopo, per toccare i quasi due milioni e 800mila all’inizio degli anni Settanta.

Il lavoro ha rappresentato non solo il fattore-chiave dei bisogni e delle aspirazioni nell’esodo interregionale, ma anche lo straordinario collante delle comunità figlie dello stesso territorio. Il vissuto dei tanti “migranti” marchigiani o umbri, abruzzesi o molisani, pugliesi o lucani, campani o calabresi, siciliani o sardi approdati a Roma e nel Lazio ci presenta storie di autentica e tenace assistenza reciproca, non solo in nome di vincoli familiari e identitari, e di naturale solidarietà, che invitano ad essere raccontate. Specie in questi tempi in cui il lavoro vive non solo una crisi di trasformazione, ma anche di atomizzazione.

Emblematica di questa complessa ricerca alle radici dei grandi flussi immigratori nella Capitale del dopoguerra è la fotografia della comunità molisana a Roma, particolarmente numerosa – ha raggiunto anche le trentamila presenze negli anni Ottanta (oggi sono undicimila) – rispetto al numero dei residenti rimasti nella regione d’origine, attualmente ridotti a meno di 280mila unità. Eccezionali “avventure” umane succedutesi nel tempo che dimostrano sia la mediocrità ideologica nell’alzare steccati contro le legittime aspirazioni al lavoro dei flussi migratori, che poi apportano benefici a tutti, sia il valore dell’aiuto reciproco quale volano di riscatto lavorativo e sociale.

I primi molisani giunti a Roma di cui si ha traccia sono gli stallieri (detti “stallini”), esperti di cavalli, che si sono insediati nella case aristocratiche già nel Settecento. Provenienti principalmente da Bagnoli del Trigno – paesone che aveva raggiunto i cinquemila abitanti ed oggi ne conta appena 640 – grazie al richiamo tra “paesani” i molisani hanno monopolizzato il mestiere nella Capitale, passando poi alla guida delle classiche “botticelle” romane (gli ultimi ricordano i “depositi” di via Sannio, di Testaccio e di Borgo) e infine ottenendo – in quasi tremila – le licenze dei taxi. Bagnoli del Trigno è considerata “la capitale” dei tassisti romani, con almeno un migliaio di auto pubbliche che rientrano d’estate nel paese d’origine. Nomi rinomati nell’ambiente hanno guidato cooperative del settore, da Tonino Di Tosto con “La Capitale” ad Arnaldo Mastrodonato con “Progresso” fino ad Achille Finamore di “Samarcanda”.

La bottega di Sergio Zoppo in via Merulana 66

Le storie di coesione familiare incentrate sui comuni natali, ma anche di genuini e disinteressati valori solidali, hanno caratterizzato anche un altro esodo dal Molise, quello degli ex arrotini di Sant’Elena Sannita, centro in provincia di Isernia che ha oggi circa 250 residenti contro i 1.935 del 1901. Già a metà dell’Ottocento, grazie alla secolare arte della lavorazione delle lame svolta nel limitrofo paese di Frosolone, i primi Santelenesi diventarono venditori ambulanti a piedi, “armati” di mola e di coltelli e forbici da vendere nelle località dell’Italia centromeridionale. Tra loro anche il nonno di Sergio Zoppo, oggi ultraottantenne, titolare di una delle ultime coltellerie di Roma, in via Merulana 66. Sergio ci racconta che il padre, nato a Roma e figlio di molisani, ha sempre onorato il lavoro: fino a novant’anni ha preso l’autobus linea 16 da piazza Montecastrilli per raggiungere via Merulana e salvaguardare, così, l’antica arte di famiglia e della comunità molisana dell’arrotineria.

Con il tempo, spinti dalle richieste dei barbieri (i principali clienti degli arrotini), l’attività si è orientata verso generi da barberia (brillantina, schiuma da barba, talco e profumi), fino al passaggio dall’ambulantato al punto vendita. Soltanto a Roma i molisani sono arrivati a gestire 230 profumerie negli anni Novanta, più un centinaio tra gli altri comuni del Lazio e delle regioni limitrofe, dall’Umbria alla Puglia. Tra i nomi più rinomati, le famiglie De Paola, Durante, Muliere, Muzio, Verdile e Zoppo, il cui capofamiglia Michele aprì da solo ben dodici negozi, raccontando in un’intervista ad un quotidiano: “Si andava da dieci o da venti ‘paesani’ già affermati a chiedere mille o duemila lire. Si mettevano assieme le 20-25 mila lire sufficienti per aprire il negozio. Tutti davano secondo le proprie possibilità con interessi bassissimi e scadenze ‘a quando ce li hai'”.

Analoghe storie di professioni monopolizzate grazie al legame territoriale e all’assistenza reciproca le hanno realizzate i mille sarti partiti da Capracotta, il paese più alto degli Appennini, sempre in provincia di Isernia, i più realizzatisi a Roma (come Sebastiano Di Rienzo, gavetta da Valentino, atelier a via Sistina, a lungo presidente dell’Accademia nazionale dei Sartori); oppure l’ottantina di ristoratori provenienti dall’Alto Molise, in particolare da Pietrabbondante (in primis “Rinaldo all’Acquedotto”, Rinaldo Di Pasquo, scomparso da qualche anno, il più grande ristorante della Capitale), benché la comunità più nutrita sia quella di Schiavi, ai confini tra Abruzzo e Molise; il centinaio di garagisti molisani, i più provenienti da Poggio Sannita. Sempre in provincia di Isernia, il territorio più svuotato dall’emigrazione, oggi ridotto a 79mila residenti.

Sono storie rintracciabili anche in altre comunità regionali, ad esempio i portieri di stabili per lo più provenienti da Umbria e Marche o i costruttori, ex manovali abruzzesi, molti originari dell’area di Tagliacozzo. Esperienze che invitano a riflettere, cercando di recuperare quel valore umano e sociale del lavoro costruito con serietà sulla costanza, sulla resistenza, sul sacrificio e sull’appagamento assicurato dai risultati. Un mondo ormai in via di dissolvimento, purtroppo, in nome di una globalizzazione spessa priva di etica e in cui il protagonismo umano sta cedendo il posto ad algidi algoritmi.

Giampiero Castellotti